VOGLIAMO UN FIGLIO
Sollecitata dalle domande di alcune amiche, vorrei provare ad affrontare un tema delicato e complesso. Il tema è l’accoglienza della vita, declinato però in quel caso, triste, in cui l’attesa non trova compimento.
Quando una coppia desidera avere figli ma non ci riesce, le strade per diventare genitori generalmente sono due: l’adozione, cioè accogliere un bambino che non ha genitori, o la PMA, acronimo che significa procreazione medicalmente assistita.
Negli ultimi decenni il ricorso alla fecondazione assistita è molto cresciuto, tanto da diventare quasi una procedura standard, una opzione prevista già dal ginecologo quando lo si consulta per pianificare la gravidanza. Pianificare non è un termine che solitamente associo all’idea della maternità, ma in questo caso esprime bene lo stato mentale in cui si entra quando la ricerca di un bambino non si risolve serenamente in un ragionevole lasso di tempo.
PMA e adozione hanno differenti risvolti etici, e tutto sommato partono da domande diverse. L’adozione è una soluzione, possiamo dire, “naturale” che va incontro a due esigenze complementari: il bisogno di un bambino di avere una famiglia e il desiderio di una coppia di avere figli. Naturale perché esiste da sempre, è una soluzione di buon senso, funzionale, pratica, tanto che si verifica anche nel mondo animale. La legislazione che regola l’adozione ha come criterio la salvaguardia del bambino e del suo diritto di ricevere le cure e l’affetto di cui ha bisogno. A livello concettuale ed emotivo
l’adozione appare un gesto di altruismo, un segno di generosità e in effetti richiede una capacità di accoglienza che viene scrutata dagli specialisti con attenzione (mi dicono a volte con scrupolosità spietata e non sempre comprensibile).
In che cosa differisce la PMA?
Fondamentalmente, secondo me, dal fatto che essa non è l’incontro di due esigenze (figlio-genitori) ma la realizzazione del desiderio/bisogno della coppia. Desiderio legittimo e naturale, che però si imbriglia in risvolti etici sempre più complessi e delicati quanto più devo intervenire artificialmente per renderlo possibile.
In questa riflessione lascio a parte quella che viene chiamata fecondazione omologa, in cui gli attori sono i genitori biologici e il bambino; anche questo aspetto potrebbe essere oggetto di riflessioni approfondite, ma lo lascio per un’altra occasione. Mi soffermo invece sui casi in cui, per arrivare ad avere un neonato, occorre l’intervento di una o più persone esterne alla coppia genitoriale, quella che viene chiamata fecondazione eterologa o gestazione per altri.
Anche se il mio punto di vista non parte dalla situazione giuridica, può essere utile ricordare che in Italia la gestione della PMA è regolata dalla legge 40/04 che via via si è modificata diventando sempre meno restrittiva. Al momento questa legge prevede la possibilità di accesso alla fecondazione eterologa (con materiale biologico -spermatozoo o ovulo- di persone esterne alla coppia) alle coppie stabili eterosessuali in età potenzialmente fertile. Secondo questa legge è possibile la donazione anonima e volontaria di sperma e di ovociti, mentre è vietata la gestazione per altri (embrione impiantato nell’utero di una donna che lo partorisce e lo consegna ai genitori, il cosiddetto utero in affitto o in prestito). Infine conviene ricordare che secondo la legge in Italia il bambino è di chi lo partorisce.
Mi sembra di capire quindi che, per una coppia che desidera figli ma non riesce ad averne, la differenza tra adozione e PMA eterologa stia nel fatto che nella prima io mi rendo disponibile ad accogliere il figlio di qualcun altro, mentre nella seconda chiedo aiuto a una persona esterna perché la coppia possa avere un figlio il più possibile “proprio”. Come dicevo prima, nella PMA il bisogno è degli adulti, perché il figlio ancora non esiste.
Questo non vuole essere un giudizio morale, è solo una osservazione, un esame di realtà. Ugualmente reale mi pare la consapevolezza che nella nostra società per molti il figlio sia vissuto come un diritto e non come un dono, il frutto possibile di una potenzialità (la fertilità, appunto); l’impossibilità di vedere soddisfatto il desiderio di genitorialità diventa un’ingiustizia subita, una sfida da superare. In quest’ottica di rivendicazione del proprio diritto, diventa difficile stabilire quali sono i limiti oltre i quali non conviene spingersi. Quando si anela a qualcosa, quando lo si ritiene essenziale per la propria vita, è facile perdere l’obbiettività e rendersi disposti a tutto.
Lo dimostra il fatto che, per esempio, nonostante la legge impedisca alcune pratiche, si trovi facilmente il modo per ovviare, svolgendole in Paesi che hanno legislazioni diverse e che quindi permettano di ottenere i risultati desiderati.
L’aspetto più evidente della problematicità della PMA, quello che tra l’altro in molti Paesi viene normato e vietato, è quello del profitto economico. È eticamente inaccettabile mercificare il corpo umano; è vietato il commercio di organi e parti del corpo, quindi anche di ovociti e spermatozoi.
E infatti si ammette in Italia solo la donazione anonima, salvo poi acquistare materiale biologico conservato all’estero, perché la nostra legge impedisce di pagare il donatore ma non importare il materiale proveniente da centri di crioconservazione esteri…
Il fatto però che la donazione debba essere anonima sottolinea un altro aspetto problematico e secondo me fondamentale: gli ovuli e gli spermatozoi non sono cellule come le altre, sono fatte per creare qualcosa di nuovo: il mio ovulo, una volta unito allo spermatozoo di un uomo, si trasforma e costituirà parte del materiale genetico di una terza persona, mio figlio, che porterà in sé tracce di me e di suo padre. L’ovulo e lo spermatozoo partecipano perciò all’essenza di un’altra persona, ne determinano molte caratteristiche, sono cioè la base su cui il bambino si trasformerà nel tempo, crescendo e vivendo. L’ovulo e lo spermatozoo, e quindi le persone da cui queste cellule derivano, non sono indifferenti rispetto al bambino che grazie ad essi prenderà vita. L’anonimato serve forse a proteggere sia il bambino che i donatori da smanie di ricongiungimento, da desideri di riconoscersi l’uno negli altri. Salvaguarda forse anche i genitori “legali” da eventuali pretese o invadenze dei donatori.
Allo stesso modo l’anonimato è un rischio, perché impedisce di riconoscere correlazioni genetiche tra estranei che potrebbero conoscersi, innamorarsi e avere figli senza sapere di essere legati da un certo grado di parentela. Mi ricordo un breve romanzo letto anni fa, IL DESTINO DEL FUCO, di Susanna Manzin, in cui un uomo si ritrova a spiegare a due adolescenti innamorati che potrebbero essere fratelli, perché concepiti grazie allo sperma dello stesso donatore…situazioni limite piuttosto grottesche ma per la verità non totalmente estranee ai fatti di cronaca, soprattutto americani.
Prima della legge 40, che risale al 2004, gli specialisti in effetti consigliavano la donazione di gameti tra parenti o conoscenti, perché sul piano genetico questa è una scelta sensata: l’ovulo donato dalla sorella dell’aspirante madre o lo sperma donato dal fratello dell’aspirante padre è un modo per avvicinarsi al patrimonio genetico che avrebbe un figlio biologico. E in effetti come prima impressione mettere a disposizione di mia sorella i miei ovuli perché lei possa diventare madre sembra un gesto estremamente generoso e altruista, un gesto d’amore, che rende ancora più solido il legame che ci unisce. Vedremo dopo perché questa impressione non sia sufficiente per scegliere questa strada.
Ancora più generosa può sembrare la pratica di mettere a disposizione il proprio utero per portare avanti la gravidanza del figlio di qualcun altro, dedicando a ciò quasi un anno della propria vita…ma è ovvio che questa pratica si è subito affermata come un affare economico che probabilmente frutta grandi guadagni a qualcuno ed enorme sfruttamento per altri, soprattutto per le donne “cicogna”, come vengono chiamate in un famoso romanzo di Margaret Mazzantini, VENUTO AL MONDO. Donne che spinte dal bisogno finiscono per sottostare ad un regime di semiprigionia per garantire la consegna di un “prodotto” che risponda alle aspettative del cliente. Questo è quello che è successo per esempio in India negli anni passati, arrivando a livelli di sfruttamento tali da spingere il governo a regolamentare e infine vietare la pratica per le coppie straniere.
In effetti chiamare questa pratica “utero in affitto” rende subito chiaro il suo senso puramente economico e contrattuale. forse per questo si è passati a chiamarla “maternità surrogata” col risultato di farla sembrare meno commerciale ma più svalutante per le donne che venivano riconosciute a tutti gli effetti come dei “contenitori sostitutivi” dei genitori legali, fino ad arrivare alla più elegante dicitura di Gestazione Per Altri, che rimanda a qualcosa di più collaborativo, e che viene abbreviato con il neutro acronimo di GPA
La GPA è legale in molti stati, USA e Canada, Spagna, l’Inghilterra, la Grecia e diversi stati dell’est Europa, dove i costi sono sicuramente più, diciamo, accessibili.
La gestazione per altri difficilmente può uscire dal contesto economico, perché in ogni modo una gravidanza ha dei costi ed è ovvio che questi siano a carico dei genitori; l’aspetto della contrattazione, dell’accordo, clausole, garanzie e firme sembrano inevitabili…quanto di più lontano ci può essere dalla percezione del figlio come un dono. Quali ricadute potrà mai avere questa pratica sulla relazione dei genitori col bambino, una volta che sarà nato? Quanto si sentiranno legittimati a far valere il diritto di recesso richiamato dalla famosa formula “soddisfatti o rimborsati”?
La durata della gestazione, quei lunghi nove mesi che servono ad una coppia per prepararsi ad accogliere il figlio in arrivo, che servono ad una madre per conoscere la sua creatura prima ancora di poterla vedere e quindi di sentirsi legata ad essa nonostante tutto quello che succederà dopo, questi nove lunghi mesi possono, nel caso della gestazione per altri, offrire al contrario numerose occasioni di ripensamento, di rifiuto, di allontanamento. Anche qui le cronache raccontano di episodi di “rescissione” dei contratti perché magari nel frattempo la coppia si scioglie, o il bambino si rivela portatore di una malattia invalidante e viene rifiutato dai futuri genitori; in alcuni casi è addirittura successo che la gestante abbia deciso di tenersi il bambino che avrebbe dovuto abortire.
Ma se si può dire un no netto all’utero in affitto, perché non dire sì ad una sorella che si presta a portare in grembo mio figlio?
Sposto la mia riflessione sul piano relazionale. La gravidanza è frutto di una relazione ed è l’inizio di una relazione nuova. Naturalmente, è frutto della relazione d’amore dei futuri genitori e, nel suo realizzarsi, segna un passaggio, una trasformazione di questa relazione. I ruoli di entrambi si modificano: la donna, impegnata nella scoperta del figlio che cresce in lei, chiede vicinanza, comprensione, sostegno; assecondare questi bisogni è il modo del marito di partecipare alla crescita di suo figlio, che può incontrare solo attraverso sua moglie, nella cura e nella tenerezza che mette nella relazione con lei.
Nella gravidanza per altri come i genitori possono mettersi in relazione con il bambino? Non nella loro intimità, ma solo coinvolgendo la donna che ospita il bimbo. Come si sentirà la moglie vedendo il marito baciare e coccolare il pancione di un’altra donna? Quanto sarà difficile per il marito non confondere la donna che ospita suo figlio con sua moglie? In un momento emotivamente delicato, quanto una donna incinta riesce a non sentirsi parte della triade coppia-bambino? Affidare il figlio a qualcuno di esterno alla coppia tutto sommato potrebbe scombinare proprio quella stabilità di coppia necessaria ad affrontare i cambiamenti che seguono l’arrivo di un bebè.
Finalmente mi occupo di un altro attore di tutte queste dinamiche, che finora non ho considerato, non perché non importante, ma per chiarire che tutta questa faccenda suscita perplessità anche senza prendere in considerazione lui, che tra l’altro è l’origine di tutto e anche il soggetto su cui maggiormente si riversano le conseguenze di tutto: sto parlando del bambino. La gravidanza segna l’inizio della sua vita, vita che esiste solo perché in relazione con altri. Con chi è in relazione un bambino in gestazione? Con la donna che lo custodisce in utero. Questo è innegabile. La “cicogna” è il respiro che percepisce, il battito che lo culla, il profumo che annusa, le emozioni che prova, il gusto del liquido amniotico che si insaporisce di quanto lei mangia. La donna che lo porta in grembo sarà il contatto che ricerca appena nato, sarà il calore che lo rassicura, sarà il latte che reclama…sarà quello che gli verrà tolto.
Certo, gli sarà tolto per dargli molto di più, i genitori che lo hanno atteso e che lo riempiranno di amore per tutta la vita…ma per ora sembra proprio un’ingiustizia!
la relazione in gravidanza si realizza tra bambino e donna che lo accoglie, anche per lei questo non è indifferente. Il legame che si crea nella vita intrauterina è fatto di chimica, di sinergia, di feedback. Tra la mamma e il bambino c’è un continuo dialogo biochimico e anche uno scambio: nel sangue materno si ritrovano cellule fetali che poi resteranno nel corpo materno lasciandone traccia per anni. Un legame indissolubile, quello tra un feto e sua madre, incancellabile.
Tanto che prima o poi le persone cresciute lontano dai genitori biologici, perché adottati o per altri motivi, faranno un viaggio di ritorno, a volte simbolico a volte reale, per ricostruire le loro radici.
E come si sentirà la partoriente una volta consegnato il bambino? Quanto facilmente riuscirà a tagliare per sempre il cordone ombelicale? Su questo aspetto insistono molto diversi film, che finiscono per mettere in luce la problematica fino a farla diventare un’ossessione da film dell’orrore, effettivamente poco realistico. Immaginiamo però quale potrà essere il tormento di abbandonare un bambino in qualche modo percepito come proprio o con cui ho condiviso una esperienza così totalizzante come la gravidanza. Un’esperienza che ha il potere di trasformare chi ne partecipa.
Forse è proprio questa cosa, il fatto che l’inizio di una nuova vita trasforma la vita di tutti in un modo che difficilmente si può immaginare: questo è l’aspetto che mi fa mettere in guardia per dire che non sembra per niente saggio imbarcarsi in una esperienza del genere, quando i protagonisti siano più dei tre previsti naturalmente (mamma, papà, bambino).
Per quanto le intenzioni siano altruistiche e gratuite, la generazione di un figlio è una questione così profondamente connaturata alla realtà della coppia che ogni intrusione può alterare gli equilibri con conseguenze difficili da immaginare. Magari non all’inizio, ma quando arriveranno i momenti difficili, quando il figlio ci metterà in crisi, che effetto avrà su un padre il ricordo che lo spermatozoo che ha generato quel figlio è di un altro uomo? O riconoscendo una dote del proprio figlio, la mamma potrà essere sfiorata dal sospetto che è tutto merito dell’ovulo di sua sorella? In un momento di scoraggiamento potrà pensare che forse il bambino avrebbe preferito crescere con la mamma che l’ha cullato prima di nascere? Sono solo alcuni degli interrogativi che possono sorgere da questa questione, ma sinceramente mi sembrano davvero impegnativi.
Con ciò non voglio mancare di rispetto a chi vive la mancanza di fertilità come un dolore lacerante e profondo, e neanche criticare o peggio condannare i tentativi di trovare soluzioni. Dico che la posta in gioco è alta e misteriosa, e che ogni scelta richiede grande discernimento e consapevolezza. Da parte mia, a guidarmi come la stella polare nella notte è la certezza di non essere noi i padroni della vita, e quindi percepire come rischioso e azzardato il tentativo di diventarne in qualche modo artefici.
Anche se capisco che dicendo questo non sono di aiuto a chi cerca una soluzione, questo è il punto a cui sono riuscita ad arrivare, e a cui per ora mi fermo.
come ricordare che un figlio, prima di ogni altra cosa, è un dono? riesco ad attenderlo senza pretenderlo?
o penso che non riuscire ad averlo sia un'ingiustizia?
11.03.2023

