SOCIAL-MENTE
12.04-10.05.2025

Oggi mi concentrerò su un tema molto sentito e molto delicato, che solitamente preoccupa molto i genitori, ma contemporaneamente li interpella senza che se ne rendano pienamente conto.
L’argomento è l’uso delle nuove tecnologie, di internet e nello specifico dei social, da parte dei piccoli e dei giovanissimi ma anche da parte degli adulti, educatori e genitori.
È un tema molto sentito, di cui si parla tanto e su cui si prendono posizioni anche contrastanti.
Da una parte tutti sono più o meno consapevoli che la navigazione in Internet, l’uso delle piattaforme social e in generale la frequentazione della tecnologia su schermo presenta dei potenziali pericoli, da cui i piccoli dovrebbero essere difesi. Dall’altra, però, i genitori si accorgono che, come all’inizio la televisione e in seguito le videocassette e i dvd, questi mezzi sono un comodo alleato nella gestione dei figli, con il loro potere attrattivo, distrattivo e consolatorio, che alleggerisce il compito di cercare sempre nuove proposte per intrattenere i figli e lascia una maggior libertà ai genitori.
Alla fine, pur se armati di buone intenzioni e di corrette informazioni, quasi tutti finiamo per cedere e dare il permesso ai figli di guardare video su YouTube, usare il telefono, giocare con i videogiochi online, iscriversi su piattaforme social.
Non voglio demonizzare questi strumenti, che sotto molti aspetti sono importanti, utilissimi e apprezzabili.
Come mi piaceva dire anni fa, però, il proprietario di uno smartphone dovrebbe essere più smart del phone, per poterlo gestire e non esserne soggiogato.
Per quanto riguarda i piccoli, un esempio davvero calzante è quello che ho sentito fare dalla dottoressa Ceriotti Migliarese qualche anno fa, rispetto l'inopportunità di lasciare i bambini soli a navigare nel web: tale comportamento equivale a pensare che un bambino possa muoversi da solo in una grande città come New York, dopo che gli abbiamo detto l'indirizzo che deve raggiungere, i mezzi su cui deve salire e che non si attraversa col semaforo rosso. Capiamo subito che in questo modo lo esponiamo a grandissimi pericoli, di cui tra l'altro saremmo ritenuti responsabili.
Il primo passo quindi come educatori è prendere coscienza delle insidie insite nell'universo della rete.
Il secondo è quello di non arrendersi a questa evidenza, come fanno coloro che disinvestono il loro impegno perché tanto è una lotta impari, o che al contrario si illudono di proteggere i loro figli da internet per sempre.
Perché, se mi baso sulla mia esperienza, la verità è che i ragazzi, già dalla scuola primaria, in internet ci sguazzino abbondantemente.
Con le colleghe del consultorio in cui lavoro, da anni facciamo progetti nelle scuole sul cyberbullismo e l’uso delle tecnologie digitali. Il panorama che ne emerge a volte è triste e preoccupante, perché evidenzia che, soprattutto nei giovanissimi, è frequente che essi finiscano in situazioni sgradevoli e complicate legate a messaggi inappropriati, esclusioni, offese, fraintendimenti.
Problematiche, per la verità, che hanno sempre caratterizzato anche in passato le dinamiche tra compagni di classe, con la differenza che attraverso il cellulare, la chat di classe o la piattaforma del videogioco le parole si amplificano e si diffondono in maniera esponenziale rispetto ad un litigio o ad una discussione che avvenga faccia a faccia, davanti a una platea limitata di testimoni.
Proprio a partire da questa osservazione mi viene da dire che le strategie e i contenuti educativi per preparare i figli ad affrontare correttamente le sfide della rete non sono in fondo così diversi da quelle raccomandazioni che si sono sempre fatte nel momento in cui i bambini si affacciano nel mondo fuori di casa: comportati bene, sii educato e rispettoso con tutti, non dare confidenza agli sconosciuti, abbi cura di te, non credere a tutto quello che dicono gli altri, ragiona con la tua testa ecc.; insomma, i classici consigli delle nonne.
In particolare l’insieme di queste regole di buon comportamento da applicare quando si usano gli strumenti social vengono chiamate “netiquette”, termine nato dalla fusione delle parole network (rete) ed etiquette (buona educazione). Ne esistono diverse varianti, non essedo delle vere e proprie norme, e rappresentano più che altro un codice di autoregolamentazione di molte piattaforme informatiche. Alcune versioni sono pensate appositamente per i giovanissimi, per aiutarli a navigare in sicurezza e a comportarsi in modo rispettoso con gli altri utenti. Una di queste per esempio è stata pubblicata all’interno del portale GENERAZIONI CONNESSE, promosso dal Ministero dell’Istruzione e dall’Unione Europea.
Gli ambiti su cui si concentrano questi consigli sono quelli che risultano più “pericolosi” per i bambini e i ragazzi (e in verità anche per gli adulti) e mi sembrano fondamentalmente tre:
-perdersi nel mare del web, approdando a siti inappropriati
-mettersi ingenuamente “a nudo” rendendo disponibili a tutti informazioni, immagini e video che sarebbe meglio non condividere
-usare una modalità di comunicazione che rende più facili fraintendimenti, linguaggio spregiudicato, possibilità di mentire
L’approdo a siti “sbagliati” è preoccupante secondo me soprattutto per quanto riguarda la pornografia (che in internet trova la sua maggior fonte di guadagno e quindi usa tutti i mezzi per rendersi visibile) a cui è possibile accedere con gran facilità, anche involontariamente, per esempio quando si usano i motori di ricerca senza applicare adeguati filtri di protezione, o quando si ricercano termini che possono coincidere con l’offerta pornografica. Inutile dire che, rispetto al passato, per i giovanissimi, naturalmente incuriositi da questi argomenti, trovare materiale pornografico è assai più facile. Se poi mettiamo in conto che, rispetto ai giornaletti e alle riviste che esistevano anni fa, i video hanno sicuramente un impatto più forte, possiamo comprendere come mai questa esposizione (a volte precocissima) possa causare ansia, calo dell’autostima, senso di inadeguatezza e anche dipendenza nei ragazzi che ne fanno uso.
Una cosa che lascia sempre piuttosto sconvolti i genitori, quando li incontro prima o dopo aver realizzato un percorso di educazione sessuale con i loro figli, è sapere che gli studi rivelano che l’età media a cui un bambino viene esposto a messaggi pornografici è di otto/nove anni, decisamente molto prima che il suo cervello abbia gli strumenti per comprendere e contestualizzare quello che vede. Per questo il consiglio che non mi stanco di suggerire è quello, fino una certa età, di non lasciare soli i figli davanti al computer quando ricercano informazioni, ma di accompagnarli, di dare indicazioni e limiti, non tanto per avere la certezza che non li superino, ma perché per loro è importante sapere che ci sono regole allo scopo di proteggerli; poi si sentiranno in diritto di trasgredirle, ma saranno consapevoli che è qualcosa che non andrebbe fatto. Quando sono un po’ più grandicelli è opportuno secondo me controllare la cronologia della loro attività su internet, per capire come ci si muovono ed eventualmente confrontarsi con loro sull’adeguatezza o meno delle loro navigazioni. Non per impedire, sgridare, castigare ma per confrontarsi ed eventualmente spiegare perché no.
Apro ora tutto il capitolo dei social e delle chat. Il più famoso e usato è forse Whatsapp, la piattaforma di messaggistica che sembra ormai inevitabile usare in gruppo (colleghi, classe, squadra ecc.) A questa applicazione spesso accedono anche i bambini che non hanno un cellulare personale, col permesso dei genitori. Per la verità è importante ricordare che al di sotto dei tredici anni i ragazzi non possono essere titolari di un account sui social, anche se non si prevedono punizioni in caso contrario. Di fatto quindi i ragazzini delle scuole medie si creano il profilo mentendo sulla loro età e ai genitori spetta il compito di provvedere ad una sorta di supervisione; mentre la SIM del cellulare e del tablet usato dai minori è intestata al genitore, che ne è per tutto responsabile, fino alla maggior età del figlio.
Usando queste applicazioni spesso non si mette in conto che la comunicazione tra esseri umani non consiste semplicemente nel mettere in ordine una serie di parole: la punteggiatura, l’inflessione della voce, l’espressione del volto sono tutti aspetti che contribuiscono a trasmettere il reale significato di una frase. Nella messaggistica istantanea questo piano manca, ed è molto più facile fraintendere. Per questo, immagino, avranno inventato le emoji, i disegnini delle faccine con le diverse espressioni. Il fraintendimento comunque non si elimina con il loro uso, perché anch’esse possono essere interpretate in molti modi differenti e quello che per qualcuno sembra un volto stanco per qualcun altro rappresenta un volto annoiato e via così…
Di fatto, su Whatsapp ci si capisce più a fatica che di persona, e da questi fraintendimenti posso derivare offese, mortificazioni, arrabbiature che portano ad un alzarsi dei toni. Inoltre, siccome il corpo impara prima della mente, la digitazione avviene attraverso degli automatismi delle dita che spesso arrivano a premere il tasto di invio prima che il cervello abbia completato la revisione di quanto scritto, valutandone più in profondità il significato e le conseguenze. A quel punto il messaggio è già partito, troppo tardi… possiamo solo sperare di riuscire a modificarlo (opzione da poco possibile) prima che il destinatario lo legga.
Un altro aspetto che rende spesso problematica la comunicazione via messaggio per i giovanissimi è il fatto di non essere faccia a faccia, cioè non avere la possibilità di vedere la risposta non verbale del mio interlocutore; ciò mi impedisce di regolare il livello comunicativo, magari cambiando registro o ripetendo con parole diverse lo stesso concetto, dopo essermi accorta di aver detto qualcosa di inopportuno o di non essermi espressa nel modo migliore.
Di fatto, quando si lascia ai ragazzini lo spazio per raccontare episodi in cui si sono sentiti vittime di prepotenze, presi in giro, emarginati, spessissimo gli episodi partono da qualcosa successo sui gruppi di chat, specialmente in quei gruppi in cui non ci sono presenze adulte che riescano a fare un minimo da moderatori.
Il fatto di essere davanti ad uno schermo invece che ad un volto, conosciuto o meno, fa perdere o allentare quei freni inibitori che non mi permettono di essere sfrontato e maleducato. Questo proprio perché davanti a me non c’è nessun, non devo temere reazioni, non devo difendermi (almeno sul momento). Se vogliamo, questo è anche l’aspetto positivo della scrittura: posso pensare con più calma a quali parole sono più adatte per esprimermi, non mi sento addosso lo sguardo altrui mentre cerco di dirgli qualcosa di difficile, mi vergogno di meno perché lui non può vedere la mia espressione imbarazzata; per le persone timide e insicure lo schermo può diventare un sostegno per acquisire sicurezza e facilitare la comunicazione. Troppo spesso invece diventa uno scudo per nascondermi dopo aver espresso commenti taglienti o battute irriguardose.
Si innesta qui il tema degli haters, persone che commentano in modo incandescente quanto pubblicato o scritto da altri, sia per esprimere il dissenso, che per schernire gli interlocutori, forse anche solo per dar sfogo a rabbia e frustrazione che poco hanno a che fare con quanto letto o visto.
La possibilità di esprimere commenti su quanto si vede o si legge è un punto cruciale nel discorso sui social. Nella mia ingenuità credo che questa possibilità, specialmente sui blog, sia stata pensata per poter realizzare quel bisogno di condivisione e scambio di esperienze tipico dell’essere umano, e penso che per questo è bene che continui ad esistere. Io stessa ogni tanto invito voi ascoltatori a guardare le immagini che posto su Instagram, collegate agli interventi trasmessi da questa emittente, con lo scopo di creare una connessione, che a volte diventa un dialogo che mi incoraggia a continuare, mi offre nuovi spunti e mi serve come feedback, come ritorno per verificare se quanto dico è condivisibile o meno.
La verità è che, in modo più o meno consapevole, chi posta o scrive qualcosa sui social o sui blog, lo fa perché cerca il consenso, vuole farsi conoscere, vuole farsi vedere: se nessuno vede, a cosa serve postare?
Se il desiderio è quello di ricevere apprezzamento e ammirazione, il risultato però può essere tutt’altro.
Per i diversi meccanismi a cui accennavo prima, una foto, una frase o un video possono scatenare commenti molto diversi, arrivando all’insulto e all’umiliazione. Queste parole cattive, proprio perché scritte e quindi rileggibili all’infinito, risultano capaci di ferire profondamente chi le riceve, fino a lasciare segni indelebili e, come purtroppo ci ha tante volte raccontato la cronaca, fino a spingere a gesti estremi i giovani a cui erano rivolte.
È stato il tragico fenomeno dei suicidi a spingere le piattaforme a tutelarsi, prima eliminando la possibilità di mettere i dislike ai post (il pollice all’ingiù) e lasciando solo la possibilità di premere like o cuoricini, poi ad autoregolamentarsi proponendo l’età minima per l’iscrizione, che in Italia ormai per tutte le piattaforme è 13 anni, e ultimamente richiedendo, per gli under 16, il consenso dei genitori per sbloccare alcune opzioni d’uso. Sono tentativi di buona volontà per proteggere i ragazzi più fragili, ma non credo ciò basti per risolvere il problema. Una collega psicologa mi raccontava che spesso i ragazzi (soprattutto le ragazze) scelgono di rimuovere foto o video dai loro profili se dopo un certo tempo non raggiungono sufficienti like o visualizzazioni, segno, secondo loro, che non sono abbastanza interessanti o non danno un’immagine del o della protagonista abbastanza accattivante o positiva.
Nei giovanissimi il bisogno di accettazione nel gruppo dei pari è fondamentale, quindi è alto il rischio di conformarsi seguendo la tendenza della maggioranza e finendo per mostrarsi come in realtà non si è.
Un po’ di tempo fa circolava un video che, per dimostrare la finta perfezione dei social, rappresentava il contrasto tra l’immagine postata dai protagonisti e la realtà che li circondava: per esempio la foto della propria scrivania in perfetto ordine mentre il resto della stanza era nel caos, la colazione perfettamente bilanciata che in realtà veniva sostituita da cibo spazzatura, il look elegante per uscire ma in realtà la serata era da soli sul divano…tutti esempi per riflettere su come la realtà mostrata nei post possa essere fittizia e solo una frequentazione concreta delle persone possa permetterci di conoscerle veramente.
L’app che forse più di tutte è stata criticata per mettere a rischio la salute mentale e il benessere psicofisico dei giovani utenti è forse TikTok, in cui si possono postare video di tutti i tipi. Nata per i giovanissimi, è diventata popolare e frequentata da utenti di tutte le età che si mettono in gioco partecipando ai trend, cioè temi, sfide, canzoni, balletti, pose, gesti o frasi che diventano popolari, si diffondono e vengono ripetuti da tutti finché si sgonfiano e passano di moda. Alcune di queste tendenze, basate sull’aspetto e l’avvenenza fisica, si sono dimostrate pericolose per le ragazzine, tanto che la società proprietaria dell’applicazione ha dichiarato lo scorso anno che avrebbe limitato l’uso di alcuni effetti di modificazione dell’aspetto per gli utenti minori di 18 anni; non sono pochi infatti gli specialisti che accusano i social media di contribuire alla diffusione di malesseri come scarsa autostima, dismorfismo e disturbi alimentari negli adolescenti. Se i dati parlano chiaro, mi sembra però semplicistico pensare che ciò valga per tutti; disturbi e problemi psicologici non sono direttamente proporzionati al tempo che si passa sui social, ma questi posso fungere da detonatori o amplificatori di fragilità o problematiche presenti in questi ragazzi.
Concludo questa panoramica con un cenno su YouTube, che rappresenta forse il primo canale che mi ricordo che abbia reso possibile la condivisione di filmati e video, ma resta ancora molto attuale e frequentato da utenti di tutte le età, sia per cercare contenuti che per caricarli, nella speranza di diventare famosi e quindi arricchirsi. Mi capita spesso che in classe alle medie qualcuno si definisca youtuber, cioè abbia un suo canale, sul quale posta solitamente video di musica o videogiochi, ed esprima la speranza di diventare famoso in questo settore. Al momento il sogno di diventare youtuber nei preadolescenti non sembra aver rimpiazzato quello di diventare un grande calciatore, entrambi ugualmente improbabili ma non impossibili. Chissà cosa preferiscono i genitori di questi ragazzi per il futuro dei loro figli?
Dalla riflessione svolta finora è emerso che sin da giovanissimi i ragazzi subiscono il fascino degli strumenti digitali, che hanno su di loro un vero e proprio effetto calamita. Gli schermi sprigionano un richiamo irresistibile sin dai primi mesi di vita, tanto che gli specialisti consigliano di salvaguardare i bambini dall’esserne esposti fino all’età di tre anni almeno.
Cosa che sembra davvero una “mission impossible”, visto che dagli schermi siamo circondati in tutti gli ambienti che frequentiamo.
Abbiamo anche verificato che proprio i bambini e i ragazzi sono i soggetti più fragili nei confronti di questi dispositivi, perché non possiedono sufficiente capacità critica e maturità per gestirli in modo appropriato. Nello specifico, possiamo aggiungere che, nel caso dei piccolissimi, abituarsi a maneggiare i touch screen dai primi anni di vita può rallentare e inibire la capacità di sviluppare quelle aree del cervello che si occupano della coordinazione motoria fine e del rapporto occhio-mano, mentre vengono sollecitati in modo innaturale i sensi come l’udito e la vista (che i bambini concentrano in un ristretto campo visivo, attenti a piccoli movimenti veloci) e il tatto, attivato principalmente sulla punta di poche dita; ancora più importanti sono le influenze che questi mezzi possono svolgere sullo sviluppo del linguaggio, la capacità di regolare le emozioni, di sopportare la frustrazione e gestire l’attesa del soddisfacimento di una richiesta, di apprendere a leggere e mantenere la concentrazione.
Tutto questo per dire che davvero non è il caso di lasciare un bambino da solo con uno smartphone o un tablet, anche quando i contenuti sono pensati per lui. Quante volte invece capita di vedere bambini nel passeggino che scrollano video mentre la mamma li spinge, o in fila alla cassa del supermercato, o al ristorante durante un pranzo con la famiglia? Perché, in effetti, questa specie di tecno-baby sitter funziona davvero bene…
Per i più grandi, invece, l’uso di internet e dei social senza adeguata educazione e controllo, può portarli ad andare incontro a problemi relazionali con i coetanei, isolamento e dipendenza, anche a causa dell’immaturità della corteccia cerebrale (condizione fisiologica in adolescenza, visto che il cervello termina il suo sviluppo molto più tardi rispetto a tutto il resto del corpo); di fatto, è proprio questa struttura del cervello ad essere responsabile della capacità di prevedere le conseguenze dei propri atti e quindi di attuare comportamenti adeguatamente prudenti.
Per questo immagino che l’insieme di regole che i produttori di programmi di interazione digitale hanno messo a punto per proteggere i soggetti più fragili non siano sufficienti a garantire un uso il meno dannoso possibile dei dispositivi elettronici.
Diventa perciò necessaria una riflessione sugli adulti, sui genitori e sugli educatori e sul loro modo di usare gli strumenti digitali; anche perché, come ormai tutti sappiamo, i bambini imparano molto più dal nostro esempio che dalle nostre parole.
Qual è allora l’uso che gli adulti fanno del cellulare e del computer? Anche per loro è dannoso?
E soprattutto come questo influenza le relazioni in famiglia e all’interno della coppia?
Cominciamo col dire che in media una persona adulta trascorre davanti ad uno schermo quasi sette ore al giorno, metà delle quali davanti al cellulare. Come tutte le attività che si protraggono a lungo, anche questa finisce per avere effetti sul corpo e sulla mente. A parte i problemi legati alla sedentarietà connessa con lo stare davanti al computer o fermi ad usare il cellulare, che interessano soprattutto l’apparato cardiocircolatorio e quello muscolo-scheletrico, gli studi più interessanti sono ovviamente quelli relativi alle modificazioni cerebrali; poco tempo fa è stata pubblicata una ricerca realizzata in Germania, che ha evidenziato come rimanere senza smartphone per 72 ore provochi un rimodellamento dell’attività cerebrale, in cui si innescano i meccanismi simili a quelli della dipendenza da fumo e alcol.
E se questo è stato provato riguardo al cervello dei giovani adulti (i soggetti esaminati avevano un’età tra i 18 e i 30 anni), per quanto detto prima riguardo all’immaturità cerebrale di bambini e adolescenti, possiamo facilmente immaginare che gli effetti su di loro saranno ancora più significativi.
Ne consegne che, prima ancora di pensare alle regole da imporre ai bambini o da concordare con gli adolescenti, sia necessario proporre a se stessi dei criteri e dei limiti nell’uso di questi strumenti che, se in una certa misura sono indispensabili (pensiamo all’ambito lavorativo) per un’altra anche da noi adulti vengono usati a scopo ricreativo o in momenti in cui potremmo benissimo farne a meno.
In un bell’articolo di qualche tempo fa su un importante quotidiano si rifletteva sul fatto che spesso il cellulare viene indicato come il colpevole del poco tempo dedicato ai figli da parte dei genitori, distratti appunto da mail, telefonate, social e passatempi. L’autore, con molta onestà, riconosceva però che il problema non è tanto dedicarsi a internet, quanto lasciarsi distrarre da esso al posto di rivolgere attenzioni ed energie ai propri figli. Oggigiorno è più frequente che la distrazione arrivi dal telefonino, ma provoca gli stessi disagi ai figli di quella che un tempo derivava dalla lettura del giornale e dal seguire la televisione e che si esplicitava verbalmente con la risposta: “scusa, adesso non posso” alla richiesta di ascolto o di fare qualcosa insieme avanzata dal figlio.
Tutto questo per dire che a volte viene facile generalizzare e incolpare un “agente esterno” di tutte le difficoltà e i fallimenti educativi, quando per la verità non dobbiamo dimenticarci che internet, come tutto il resto, è solo uno strumento a nostra disposizione; poi spetta alla nostra responsabilità e libertà non farlo diventare un rifugio, una bolla di protezione rispetto alle richieste, a volte impegnative, a volte esasperanti, che ci arrivano da coloro che abbiamo messo al mondo e che abbiamo il dovere di accompagnare e guidare nella crescita.
Una strategia utile per vivere con più consapevolezza ed equilibrio e nello stesso tempo per dare ai piccoli un esempio positivo, è quella di stabilire dei criteri, dare dei confini, creare spazi e momenti in cui la tecnologia è bandita, saper dare ragione di eventuali strappi alla regola ed essere disposti a fare anche noi genitori un po’ di fatica, a dirsi dei no, per salvaguardare la coerenza del nostro agire e, con essa, la nostra credibilità di adulti.
In famiglia il cellulare e internet non hanno ricadute solo sul rapporto tra genitori e figli, ma anche all’interno della relazione di coppia.
Su questo argomento sono ormai stati scritti innumerevoli articoli e libri che esaminano gli aspetti sia in negativo che in positivo di questa ingombrante presenza tecnologica. Oltre che sintetizzare quanto letto, provo a condividere alcune mie semplici riflessioni, non necessariamente suffragate da dati scientifici.
Mi lascio ispirare da una frase sibillina pronunciata nel film “PERFETTI SCONOSCIUTI” da uno dei protagonisti; la storia presenta un gruppo di amici che decide di lasciare i cellulari in mezzo al tavolo durante una cena, per dimostrare di non avere segreti da nascondere. Inutile dire che la verità sarà ben diversa, e la serata si trasformerà in un momento di sorprese e confessioni forzate. Un protagonista, appunto, dubita che la scelta di condividere i cellulari sia ragionevole, perché essi, dice, sono la nostra “scatola nera”: contengono tutte le nostre informazioni, i nostri pensieri e i nostri sogni.
Il primo pensiero quindi è questo: nella coppia è importante rispettare l’intimità e lo spazio personale dell’altro, che proprio perché diverso da me avrà sempre un nucleo inconoscibile, misterioso.
Oggi i cellulari sono davvero il luogo virtuale in cui sono custodite tutte le nostre informazioni e le nostre attività, i nostri spostamenti. La tentazione di invadere questo spazio privato, dando per scontato il permesso dell’interessato o addirittura facendolo di nascosto, può essere forte all’interno della coppia, soprattutto se la molla di questo interesse è la gelosia o la scarsa fiducia nella sincerità dei racconti che il nostro o la nostra compagna di vita condivide rispetto al tempo che non passiamo insieme.
Sottolineo quanto, secondo me, nella coppia sia importante rispettare gli spazi e i tempi personali, accettando che alcuni aspetti della vita dell’altro restino privati o vengano conosciuti secondo il modo dell’altro, così come ognuno di noi deve sentirsi legittimato a mantenere un piccolo ambito di privatezza. Niente, per la verità, mi scombussola di più che incontrare quelle coppie in cui lo spazio dell’uno coincide con la spazio dell’altra, in una modalità simbiotica che finisce di fatto per annullare le reciproche individualità.
Quindi ad ognuno il proprio device, senza invadenza e con rispetto. Con ciò non si intende che nella coppia non possano esserci spazi di condivisione dei cellulari: capita infatti abbastanza spesso di chiamare al telefono il marito e sentirsi rispondere dalla moglie, o da un altro famigliare. Questo è positivo quando avviene in accordo e viene percepito dagli interessati come utile e naturale.
I problemi nascono quando c’è una disparità di comportamento (mi sento in diritto di usare il tuo cellulare ma non ti permetto di toccare il mio) ma soprattutto se il rapporto col proprio cellulare influisce negativamente sulla relazione di coppia.
A parte la gelosia e la sorveglianza digitale, cioè la tendenza a controllare come l’altro si muove sui social (a chi concede i like e con quali persone interagisce) che può provocare fraintendimenti, incomprensioni e inutili sospetti, il fenomeno più rilevante sembra il “phubbing”, cioè quella situazione in cui un membro della coppia si sente trascurato a causa del tempo che l’altro passa davanti allo schermo. Il termine deriva dalla fusione delle due parole inglesi phone e snubbing, che significa snobbare. Faccio phubbing quindi quando non smetto di usare il telefono mentre sono con le altre persone, non sono capace di resistere al richiamo della notifica mentre sto parlando con qualcuno, non alzo lo sguardo dallo schermo mentre una persona mi chiede qualcosa.
Questo atteggiamento, per la verità molto facile da acquisire, se agito all’interno della coppia può avere ripercussioni importanti sul senso di autostima di chi si sente escluso, che finirà per credere di essere poco importante per il partner, o che l’altro non sia interessato a impegnarsi nella relazione, aumentando la sensazione di inutilità e solitudine che a volte può trasformarsi in sentimenti depressivi e di rabbia. Davvero non una bella prospettiva…
Ma anche per chi attua questo comportamento ci possono essere dei problemi: oltre a essere percepito come maleducato e insensibile, chi non riesce a staccare gli occhi dallo schermo per dedicarsi alla persona che ha davanti, soprattutto se mantiene questo atteggiamento anche al di fuori del rapporto di coppia, a lungo andare rischia un impoverimento delle sue capacità relazionali, l’isolamento da parte di chi preferirà rivolgersi a persone più interattive, fino a perdere i confini tra il reale e il virtuale, solitamente preferendo al primo il secondo.
All’interno della coppia un’altra grossa ferita relazionale può essere rappresentata da quello che ora viene chiamato cybersex, cioè quell’insieme di comportamenti che includono la navigazione su siti pornografici e chat erotiche, fino ad arrivare a frequentazioni online tra persone reali che si legano in una relazione romantica in rete anche senza arrivare all’incontro fisico.
Il tradimento virtuale è ormai stato riconosciuto come comparabile al tradimento in carne ed ossa, diventando motivo di responsabilità in caso di separazione, come stabilito qualche anno fa dalla Corte di Cassazione. Inutile dire che quando però si arriva a questi livelli, spesso ci sono insoddisfazioni e incomprensioni sottostanti, magari non affrontate apertamente o lasciate sedimentare a lungo.
Insomma, tutta questa lunga panoramica sui pericoli digitali mi ha un po’ intristita, per via di tutte le ripercussioni negative che ad essi sono collegate. Nonostante tutto continuo a pensare che Internet sia stata una conquista importante e positiva, che però richiede tanta responsabilità e soprattutto buon senso. Per ora la mia analisi si ferma qui, consapevole che esiste una nuova e inquietante sfida, che però non mi sento ancora pronta a raccogliere; è quella rappresentata dall’intelligenza artificiale, che piano piano sta pervadendo i siti e le app. Ma su questo ho ancora bisogno di riflettere, anche perché non ho mai provato a farne uso.
Per ritornare sul piano più educativo, che mi fa sentire più a mio agio, cosa può permetterci di convivere in modo accettabile e favorevole con tutte queste tecnologie? Le regole suggerite un po’ da tutti sono applicabili sia nel contesto di coppia, che in quello relazionale e famigliare. Consistono innanzi tutto nel divenire consapevoli dell’uso che facciamo di questi strumenti, per accorgerci quando stiamo esagerando, quando cioè lasciamo che siano loro a plasmare le nostre abitudini e le nostre scelte e non viceversa.
I criteri di verifica sono:
-quanto del mio tempo dedico allo schermo e quanto invece ai membri della mia famiglia?
-quanto sono presente a chi mi sta parlando? Quanto mi distrae il cellulare da questa interazione?
-quali sono le cose contenute nel mio telefono che non voglio condividere con il mio partner? perché?
Aiuta inoltre darsi delle regole condivise, come non usare il cellulare durante il pranzo, o in un certo luogo della casa, o in momenti della serata dedicati al dialogo e allo scambio di idee.
Dimostrare cioè con i fatti e non solo con le parole che la persona (tu, mio marito, mio figlio) viene prima del cellulare.
Per quanto riguarda i figli, saper motivare positivamente il differimento nella consegna di uno smartphone personale, meglio se in collaborazione con altri genitori, perché i figli non si sentano tagliati fuori da tutti i coetanei e non covino risentimento e senso di ingiustizia nei confronti della propria famiglia.
Rispetto a tablet e computer, evitare che restino incustoditi in cameretta, a disposizione durante la notte; stabilire un’ora di spegnimento e il tempo di esposizione massimo giornaliero. Accompagnare i figli durante l’uso.
Quando diventano più grandi e potranno avere accesso ai social, è bene responsabilizzarli su alcuni punti chiave, che permetteranno loro di imparare ad autoregolarsi, soprattutto sui contenuti che condivideranno in rete.
Le suggestioni che uso di solito sono queste:
- ricordiamoci che quanto messo in rete ci resterà per sempre, fuori dal mio controllo, anche dopo averlo cancellato. La foto o la frase che ho postato ieri sarà ancora in giro tra dieci anni, chissà che impressione di me lascerà?
-Le foto che condivido solitamente rispecchiano lo stato d’animo e il contesto che vivo in quel momento, che però possono essere sconosciuti o interpretati in modo differente dalle persone che le guardano.
(mi espongo sempre alla possibilità di essere frainteso e criticato ingiustamente)
-Il corpo “esibito” richiama l’attenzione su di sé e lascia nell’ombra gli altri piani della persona (psiche e spirito) che per essere conosciuti hanno bisogno di qualcosa di meno immediato.
-non ho nessun controllo su chi riceve i miei messaggi, le mie foto, i miei video; questi possono, anche per sbaglio, finire sotto gli occhi di chiunque
-come la mia, anche la privacy degli altri è importante: chiedere il permesso prima di pubblicare foto che oltre a me ritraggono altre persone, o di condividere con qualcun altro il materiale che è stato inviato a me da un mio contatto.
Termino con questi consigli, utili per tutti e tutto sommato semplici e facili da applicare, nella speranza che in ognuno di noi, me compresa, maturi una sempre più lucida e funzionale consapevolezza, capace di raccogliere questa enorme sfida e trasformarla in una potente opportunità di bello e di buono, un motore non di solitudine e incomprensione ma di inclusione e vicinanza tra gli esseri umani, con un riguardo particolare alla realtà a noi più intima, la nostra famiglia.
quale impatto hanno gli strumenti digitali, e nello specifico i social media, nella vita di piccoli, giovani e adulti? è possibile educarsi in famiglia ad un uso consapevole e equilibrato?
