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PAROLE DI VALORE

Oggi vorrei fare alcune riflessioni sul nostro modo di comunicare, in famiglia come con le persone che incontriamo sul lavoro, a scuola o nei luoghi di socializzazione; con le persone che ci chiedono aiuto, consiglio, vicinanza.

Lo spunto mi viene da un intervento che ho avuto modo di realizzare durante il corso base per nuove insegnanti del Metodo dell’Ovulazione Billings, qualche settimana fa. Il tema, nello specifico, era: come parlare dei Metodi Naturali alle coppie in consulenza e ai gruppi di giovani, fidanzati, adulti.

Le riflessioni che seguono si possono applicare sia in quei casi, sia in ogni tipo di relazione di aiuto, anche nel rapporto tra genitori e figli e perfino all’interno della coppia. La comunicazione è una dimensione davvero complessa e pervasiva di tutti i livelli delle relazioni umane.

Questo è così vero che gli studiosi da anni sostengono che ad essa si possono applicare diversi assiomi, il primo del quale è: non è possibile non comunicare.

Ogni volta che due o più esseri umani condividono uno spazio, attivano tra loro un processo comunicativo; ciò significa che la sola mia presenza dice qualcosa all'altro, non è indifferente all'altro, e a causa della mia presenza l'altro, in qualche modo, si deve adattare, riorganizzare. 

Proviamo a pensare ad un esempio banale: sono in ascensore da sola e all'improvviso entra qualcuno. Questo provoca in me un cambiamento. Se lo desidero posso iniziare una conversazione, mostrandomi cordiale ed espansiva. Se invece non mi interessa interagire con il nuovo arrivato, per educazione scambio uno sguardo, un mezzo sorriso, un saluto frettoloso e poi abbasso lo sguardo e in questo modo gli comunico che non voglio andare oltre. Posso anche non reagire alla sua presenza ed evitare qualsiasi contatto. In ogni caso gli lascio una serie di idee e impressioni su di me che si porterà via con lui. In questo senso è impossibile non comunicare. Anche il silenzio e l'assenza comunicano all'altro qualcosa di me, non fosse altro il mio desiderio di non interagire con lui. Non rispondere a una domanda è comunque una risposta!

Tutto ciò ci conferma che la natura umana è profondamente relazionale: esistendo, creiamo legami gli uni con gli altri.

Con le persone che amiamo quindi potremmo dire che c'è sempre un canale di comunicazione aperto, in

alcuni momenti attivo (quando siamo presenti l'uno all'altro, ci guardiamo e ci parliamo) in altri silente o riflesso ((quando pensiamo o ricordiamo cose dette o fatte dall'altro e le lasciamo "lavorare" dentro di noi). Per questo si può dire che l'altro, anche quando assente, vive nel mio cuore, nella mia mente.

 

Fatta questa premessa, la domanda fondamentale è: come faccio a comunicare nel modo migliore con un'altra persona, specialmente se devo trasmettere dei messaggi belli, buoni, importanti? Per esempio quando sto educando i miei figli, o insegnando ai miei alunni, quando collaboro con i colleghi in ufficio, o mi impegno in un'attività di aiuto, di volontariato, di formazione…?

 

C'è una citazione che mi aiuta molto a ordinare i miei pensieri su questo argomento: 

 

Non si può insegnare ciò che non si sa, non si può testimoniare ciò in cui non si crede. 

 

Riletta in positivo significa che posso insegnare, cioè affidare all'altro, niente più di ciò che ho in me e che tutto quello che so, cioè che fa parte della mia esperienza, in qualche modo può essere trasmesso all'altro, persino senza che io ne sia realmente consapevole. 

Ci sono insegnanti che, nello spiegare una lezione, lasciano intravedere che sanno molto di più di quello che stanno dicendo, e questo può essere di stimolo agli alunni per desiderare di approfondire, di saperne di più su quell'argomento o su quella materia. Nello stesso momento questa impressione può suscitare ammirazione o apprezzamento verso l'insegnante, lasciando immaginare quanto tempo avrà speso per arrivare ad un tale livello di conoscenza! 

Questo è quello che ho provato a volte da studente (ci sono degli insegnanti che restano nel cuore tutta la vita) e che provo ancora ascoltando alcuni relatori, specialisti, podcasters, che sanno trasmettere con competenza ed entusiasmo le loro conoscenze e le loro riflessioni e mi stimolano a continuare a studiare, approfondire, interessarmi ad argomenti nuovi.

Ma anche se pensiamo a conversazioni e incontri più "normali", con un conoscente o con qualcuno incontrato in qualche occasione (o in ascensore, per tornare all'esempio di prima) ci accorgiamo che spesso dalle parole e dal modo di fare di quella persona traspare tutto un vissuto, traspare la sua storia, che contribuisce a dare rilevanza e credibilità a ciò che dice.

Quindi, secondo me, quando una persona mi comunica qualcosa di vero e importante non mi consegna solo delle parole e dei contenuti, ma mi consegna una parte di sé, della sua storia, del suo essere.

 

 

Non si può insegnare ciò che non si sa: Se mi metto dall'altra parte, dalla parte di chi parla, di chi insegna, ciò significa che ho la responsabilità di dire cose vere, di non spacciare per certo, sicuro, qualcosa che non lo è; significa prendersi la responsabilità di non confondere la verità, o quanto è provato scientificamente o storicamente, con le mie opinioni, o il sentito dire. Sarebbe tutto molto più chiaro se mentre parliamo ci ricordassimo di inserire formule come "secondo me", "credo che", "a mio parere" quando affermiamo qualcosa che non ci arriva da certezze verificate. 

Soprattutto in occasioni di confronto, o quando ci vengono fatte delle domande, è importante valorizzare le nostre conoscenze e poterle anche contrapporre a dicerie e false credenze, difendendo quello che sappiamo essere vero. Nel contempo però non dobbiamo temere di ammettere con semplicità che alcune cose non le sappiamo, per alcune domande non abbiamo le risposte, o che per poter affrontare alcune questioni avremmo bisogno di documentarci.

Come per tutto il resto, riconoscere i propri limiti senza vergognarsene è fondamentale e aiuta ad essere apprezzati anche per l’onestà intellettuale. Soprattutto perché ho in mente un tipo di comunicazione che non è finalizzata a vendere, a convincere, a imbonire chi ho davanti, ma penso alla comunicazione di valori, di verità, di bellezza, di bontà…la comunicazione nell’amore.

 

Non si può testimoniare ciò in cui non si crede: questa è la seconda parte della frase richiamata prima. Cosa significa? Che la mia comunicazione riflette il mio sistema di valori e il momento di vita, l’esperienza che sto vivendo; se quello che dico stride rispetto a quello che vivo, la mia credibilità ne risente, la mia comunicazione è meno efficace. Allora quando devo parlare di una questione importante mi conviene chiedermi cosa significa per me quella questione: cosa significa in generale e cosa significa oggi nella mia vita; perché se in questo momento della mia vita il mio credere in qualcosa è in crisi, è importante essere consapevole della possibilità che dal mio parlare traspaia magari una disillusione, un’amarezza, un’insicurezza che possono essere il contrario di quello che vorrei far passare. Faccio un esempio: voglio o devo affrontare il tema dell’amore e del matrimonio, in cui io credo e che per me è importante, ma sono in un momento di difficoltà a causa di una delusione d’amore. Riuscirò a far trasparire dal mio atteggiamento e dalle mie parole la bellezza e la magia dell’amare? O questa sarà appannata dalla mia recente delusione?

È sempre auspicabile fare il punto con se stessi sulle questioni che si affrontano con gli altri; anche qui, non c’è vergogna nel confessare che in alcuni momenti della vita non siamo in grado di testimoniare agli altri qualcosa che per noi è, anche solo temporaneamente, vacillante o non più vero, sentito. Direi anzi che si dimostra in questo modo una coerenza tutto sommato non scontata…quante volte nelle discussioni, anche tra famigliari, si viene accusati di ipocrisia proprio perché le parole che diciamo non sembrano corrispondere ai fatti (il famoso detto: predicare bene, razzolare male)?

 

Abbiamo detto quindi che tutto quello che io sono e tutto quello in cui io credo essenzialmente abitano la mia comunicazione. Essa avviene, come spesso intendiamo, soprattutto a livello verbale, ma non solo: ci sono altri aspetti che precedono e accompagnano le parole, altrettanto importanti e recepiti da chi ci ascolta in modo immediato e a volte inconsapevole.

Uno di questi è l’atteggiamento corporeo, quello più spontaneo e difficile da controllare: la postura, il modo di occupare lo spazio e di muovermi, le espressioni del volto, il tono della voce, i piccoli gesti involontari che mettiamo in atto per scaricare la tensione o per concentrarci. Questi particolari raccontano il mio stato d’animo, il mio essere presente o distratto, interessato o infastidito ecc.

Proviamo a immaginare la diversa impressione che ci fa una persona che parla con noi seduta sul bordo della sedia ticchettando le dita sul tavolo mentre guarda di sfuggita fuori dalla finestra, oppure una persona seduta comodamente con le mani appoggiate l’una sull’altra che ricerca il nostro sguardo e ci sorride.

Mentire con il corpo è difficile, molto più difficile che farlo con le parole. Riescono a farlo gli attori, che vengono tanto più apprezzati proprio quanto meglio ne sono capaci!

Quando allora devo ricevere una coppia in consulenza, o devo tenere una lezione, o devo parlare di qualcosa di importante con mio figlio, mi conviene fare il punto su me stessa, su come sto in questo momento, sul mio modo di ESSERCI, essere presente, concentrata e dedicata a quello che sto per fare, non distratta, non annoiata. Il primo dono che possiamo fare ad un altro quando comunichiamo con lui è quello della nostra presenza, del tempo e dell’attenzione che gli offriamo, dell’importanza per noi di essere con lui in quel momento. Quanto frettolose e distratte sono spesso le nostre conversazioni?

Oltre all’atteggiamento, la comunicazione avviene attraverso i gesti e i comportamenti volontari, consapevoli: gesti di accoglienza, come darsi la mano, salutare, mostrare dove accomodarsi, sorridere, ascoltare con attenzione, mostrare interesse, ricordarsi i nomi di ognuno quando si parla a un gruppo… cosa in cui io faccio molta fatica e per questo mi scuso con gli interessati! Questo anche per dire che non dobbiamo pretendere di essere perfetti nella comunicazione, possiamo riconoscere i nostri limiti e offrirli con umiltà a chi ci ascolta, chiedendogli di comprenderli e accettarli con benevolenza.

 

Infine ci sono le parole. La scelta delle parole è importante, perché con essere trasmettiamo valori. Parole oneste, positive, sincere, attente, rispettose. 

Il modo con cui chiamo una cosa non ne cambia la natura, ma trasmette il valore che le dò. Faccio un esempio forte ma secondo me molto significativo, per altro pertinente all'esperienza di formazione delle nuove insegnanti del Metodo Billings a cui facevo riferimento all'inizio. 

Blastocisti è il nome scientifico dell'essere umano quando arriva a una settimana di sviluppo dopo il concepimento. Posso scegliere, come avviene spesso, di chiamarlo "prodotto del concepimento", oppure posso scegliere di chiamarlo "bambino". Mi riferisco in entrambi i casi alla stessa realtà, la blastocisti, ma nel primo caso trasmetto l'idea che è il risultato di un processo biologico, nell'altro che è una persona nelle primissime fasi della sua esistenza. Tutti e due questi significati sono veri, ma il loro nome suggerisce qualcosa di diverso. Non a caso "prodotto del concepimento" viene usato nel campo della procreazione medicalmente assistita, che per alcuni aspetti sembra una "fabbrica" di bambini. Questo termine, "prodotto", suggerisce che il risultato che ne deriva, il figlio, è frutto di un procedimento arbitrario, generato e controllato dalle capacità e dagli strumenti dei tecnici, degli scienziati, insomma dell'uomo. È chiaro quindi pensare che queste fasi della vita siano manipolabili, si possano interrompere, modificare, sperimentare.

Quando invece chiamo la blastocisti "bambino" la investo automaticamente della dignità dovuta ad ogni essere umano, sottolineando come questa non dipenda dall'età, dalla visibilità, dalla capacità di vita autonoma ecc. Con una semplice parola quindi svolgo un compito educativo, trasmetto valori, metto le basi su cui si innesta il pensiero di chi mi ascolta.

Porre attenzione alle parole da usare non è scontato, deriva da un allenamento e dalla precedente riflessione sui significati che per noi sono preziosi, importanti. Con l’esperienza e l’attenzione alle reazioni di chi mi ascolta, posso un po’ alla volta abituarmi all’uso di un vocabolario sempre più adatto a trasmettere ciò che desidero nel modo più efficace.

 

Qui si innesta un secondo fattore legato alla comunicazione, importante quanto il primo: io posso lavorare sul mio modo di comunicare, per essere sempre più comprensibile, ma non dipende da me il fatto di essere ascoltato e compreso…questo fa parte della capacità e della libertà dell’altro.

Chi ho davanti, come me, possiede un sistema di valori, un vissuto ed usa un linguaggio che però non necessariamente corrisponde al mio. Quando lavoro con i gruppi mi capita ogni tanto di proporre un piccolo esperimento: chiedo a ognuno di scrivere le prime tre parole che vengono in mente ascoltando un termine che suggerisco io, per esempio CASA. Con un concetto così basilare, la casa, è naturale aspettarsi che le tre parole elencate da ognuno si assomiglino molto. Dalla successiva verifica invece succede spessissimo che esse non coincidano affatto. Questo dimostra come è facile che il mio messaggio, che per me ha un significato scontato, per chi lo ascolta ne assuma uno diverso, dovuto alla sua interpretazione.

Per questo secondo me è importante avere alcune attenzioni quando si vuole essere sicuri di farsi comprendere e di comprendere chi ho davanti; provo a suggerirne qualcuna.

-chiarire la terminologia: spiegare cosa intendo quando uso una parola, oppure accordarsi sul significato da darle, creare un vocabolario condiviso (esempio: quando dico CUORE intendo la sfera dei sentimenti, non il muscolo cardiaco)

-non farmi condizionare dal mio pregiudizio su chi ho davanti basandomi sull’aspetto, sul gruppo di appartenenza, sui suoi comportamenti passati (così giovane cosa vuoi che ne sappia… ah, è straniero… è quello che fa sempre polemica…); lasciamo all’altro la possibilità di stupirci e a noi la capacità di guardarlo con occhi nuovi.

-tenere sotto controllo la tendenza ad interpretare quello che dicono gli altri secondo i nostri criteri (so già cosa ne pensi, ho capito cosa intendi) perché in questo modo rischiamo di fraintendere quello che in realtà ci chiedono o ci raccontano

-chiedere feedback per essere certi di essere comprensibili (non so se sono stata chiara, spero di essermi spiegata, forse lo dico in modo complicato)

-saper rimodulare il registro comunicativo (non i contenuti, ma il modo di esprimerli) per adeguarlo a chi ascolta (ripetere lo stesso concetto con parole o suggestioni diverse)

-essere disponibili ad accogliere il punto di vista dell’altro e a riconoscere e valorizzare la verità che ci porta, ripartendo da ciò che ci accomuna, con l’intento di disinnescare le tensioni invece di alimentarle, nel caso ci siano delle posizioni diverse.

L’obbiettivo non è convincere l’altro della mia ragione, ma la ricerca e la condivisione della verità!

Tanti secoli fa Galileo Galilei disse: “non puoi insegnare qualcosa agli altri, puoi solo aiutarli a scoprire qualcosa di nuovo dentro di sé”.

 

Termino condividendo un’altra frase, un brano anonimo suggeritomi da una delle persone che mi hanno insegnato tanto su questi argomenti.

 

"una parola incauta può far divampare un conflitto, una parola crudele può devastare una vita

una parola amara può instillare odio, una parola brutale può ferire o uccidere;​

           una parola cortese può aprire molte porte, una parola gioiosa può illuminare una giornata

           una parola tempestiva può ridurre l'ansia, una parola dolce può curare il corpo e l'anima"

quali attenzioni ci aiutano a comunicare nel modo migliore con le persone che amiamo, che ci sono affidate, che ci chiedono aiuto?

09.11.2024

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