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DA QUANDO CI SEI TU

Il tema che vorrei affrontare oggi riguarda la genitorialità. Benché essere genitori è questione dell'uomo e della donna, anche questa volta temo che finirò per concentrarmi su un aspetto prevalentemente femminile; spero però che anche i padri possano riconoscersi, almeno in parte, in quanto ascolteranno e, anzi, sarebbe bello e utilissimo un loro contributo per rendere più completo il quadro. Mi riprometto prossimamente di alzare lo sguardo sul maschile, per apprezzarlo e valorizzarlo come merita. 

 

Ogni volta che una coppia annuncia l'arrivo di un bambino è una gioia. Lo è davvero, perché ogni nuova vita è un bene per l'umanità, è un dono al mondo, è una promessa di futuro.

Alla mamma in attesa si offrono sorrisi, incoraggiamenti, racconti di gioie che solo la maternità può regalare. Ed è così, diventare madri significa aprirsi ad esperienze ed emozioni che non so se possano essere sperimentate altrimenti. Le neo mamma vengono istruire, accompagnate, sostenute da altre donne, in passato quasi esclusivamente membri della famiglia allargata; oggi di questa cerchia fanno parte in misura sempre maggiore alcune specifiche figure professionali (ostetriche, doule, pediatre, psicologhe, pedagogiste... ) che si rendono disponibili sia fisicamente, in appositi luoghi di incontro, sia su internet, diffondendo consigli, saggezza e competenza su blog e piattaforme social. 

Quando arriva un bambino, i genitori si preparano ad accoglierlo con entusiasmo, pieni di speranza e buone intenzioni.

Una volta arrivato, il bambino diventa il centro delle attenzioni e, come un ciclone, trasforma la vita di chi lo accoglie. Non delude tutte quelle promesse di felicità, di stupore, di gratitudine che hanno riempito il cuore della mamma, del papà e anche dei nonni nei mesi dell'attesa. 

Ma subito dimostra anche che tutto questo amore non è esente da fatica, preoccupazione, dolore. In effetti, quello che alle mamme e ai papà (forse a ragion veduta) non si dice fin dall'inizio è quella profezia che solo il vecchio Simeone ha avuto il coraggio di svelare a Maria quando, piena di trepidazione, ha presentato Gesù ai sacerdoti del tempio: "A te una spada trafiggerà il cuore". Immagino cosa avrà pensato questa giovane mamma udendo una profezia così sinistra e inaspettata, e quante volte in futuro queste parole le saranno tornate alla mente, acquisendo un significato sempre più intenso, diventando sempre più vere e pesanti.

Il fatto è che da quando sa di avere un bambino che palpita di vita nel suo grembo, una mamma inizia ad occuparsi, a preoccuparsi di lui, del suo benessere, del suo bisogno, della sua felicità. E inevitabilmente questo porta, insieme a grandi gioie e soddisfazioni, tante piccole e grandi fitte al cuore, come quelle profetizzare a Maria da Simeone.

 

Una cosa che mi ha sempre colpito pensando al diventare genitori è il fatto che questa condizione è definitiva, non ha termine: non si può avere un figlio per un po' e poi dare le dimissioni da genitore. E questa cosa secondo me è ancora più vera e profonda che l'essere coppia, che pure è una condizione che può mantenersi per tutta la vita, e che resta tale agli occhi di Dio nel sacramento del matrimonio, ma che comunque chiede una scelta, una volontà personale; infatti succede che questa volontà di mantenere il legame venga meno e la coppia si sciolga, lasciando liberi i due di creare nuovi legami al posto del precedente.

Questo non succede con i figli. 

Dal momento in cui una donna sa dell'esistenza di suo figlio, nella sua mente e nel suo corpo quel figlio esisterà per sempre.

Per accorgersi di questo basta ascoltare la voce delle mamme che il figlio non ce l'hanno più. Che sia a causa di aborto spontaneo o procurato, abbandono o allontanamento forzato, morte per malattia o incidente, quando una donna parla di suo figlio che non c'è ricorda l'età che avrebbe avuto, ipotizza l'aspetto che avrebbe ora, le cose che avrebbe fatto... Essere madre è una condizione irreversibile. Ovviamente anche essere padre lo è! Come dicevo all'inizio mi viene naturale parlare al femminile perché è la condizione che vivo, che comprendo meglio e di cui ho esperienza diretta.

Amare un figlio significa preoccuparsi per lui, temere, soffrire per lui e così come si gioisce e ci si sente pieni di orgoglio e gratitudine quando egli raggiunge un piccolo o grande risultato, così ci si sente in ansia e impotenti quando affronta una difficoltà o un fallimento, arrabbiati e agguerriti quando subisce un'ingiustizia. 

Questo è naturale e funzionale quando il figlio è piccolo e ha bisogno di essere accompagnato nel mondo, aiutato a crescere, protetto dai pericoli. Ma cosa succede man mano che il figlio cresce?

Quando comincia a esercitare la sua autonomia, quando esprime le sue idee, prende le sue decisioni?

Il compito dei genitori allora diventa quello di facilitare nel figlio l'espressione e la realizzazione di sé, in quello che gli psicologi chiamano il rispecchiamento: con l'ascolto, la comprensione, la critica, lo scontro il genitore rimanda al figlio l'immagine di sé perché riesca a vedersi per quello che è, proprio come in uno specchio, e col tempo possa "aggiustare" quelle parti di sé che ancora sono in costruzione. 

È quello che succede soprattutto durante l'adolescenza, che spesso è un tempo vissuto con fatica da parte dei genitori.

La sofferenza deriva, a volte, dal vedere la fragilità dei figli, magari la difficoltà a mantenere amicizie, oppure ci si preoccupa che gli amici possano avere una cattiva influenza; deriva dalle difficoltà scolastiche, dagli scontri in famiglia, da tutte quelle situazioni in cui si vede il figlio infelice, o afflitto da problemi di salute. 

Ciò che affligge maggiormente i genitori sono l’ansia e la paura dei pericoli a cui un figlio può andare incontro, da cui si sentono di doverlo proteggere cercando di evitarli. Per un verso questo è necessario, ma sarebbe utile intervenire in caso di pericoli davvero seri, gravi, imminenti. La domanda è: quando i nostri figli sono in un serio, grave, imminente pericolo? Quando invece la nostra paura impedisce loro di confrontarsi col pericolo, per imparare a riconoscerlo ed evitarlo (o affrontarlo, quando necessario)? 

È allora utile, per una mamma, imparare a controllare, contenere la propria ansia per permettere al figlio di fare le esperienze che lo fanno crescere, anche quelle negative.

Altre volte per un genitore la sofferenza nasce dal comportamento sfidante del figlio, da parole taglienti, da prese di posizione che lasciano esterrefatti. 

Quanto è importante in quei momenti saper incassare, non reagire d'impulso, saper alleggerire la tensione? E in seguito con più calma riconoscere ragione e torto da entrambe le parti?

Sicuramente un punto debole di noi genitori è il nostro narcisismo: il desiderio, l'aspettativa che tutti i nostri sforzi, le nostre rinunce, la nostra dedizione siano riconosciuti e appagati dal figlio che, nella misura in cui realizza con la sua vita i nostri desideri, ci fa sentire ripagati dello sforzo fatto; se invece li contrasta, ecco che ci sentiamo traditi, delusi e amareggiati (“Con tutto quello che ho fatto per te...!”).

La verità è che i nostri figli non hanno il dovere di ripagarci, non devono riscattare le nostre fatiche perché il nostro impegno verso di loro è dovuto, è connaturato al nostro ruolo, appunto, di genitori. i figli non ci hanno chiesto di chiamarli al mondo e non si possono incolpare delle nostre frustrazioni o dei nostri limiti. A loro viene chiesto di riconoscerci come figure autorevoli, di rispettarci e onorarci...non per forza di accontentarci!

 

Più i figli crescono, più il rapporto con loro si trasforma, semplificandosi per alcuni aspetti e complicandosi per altri.

La sempre maggiore autonomia del figlio magari ci alleggerisce da incombenze e necessità pratiche, e anzi possiamo chiedere aiuto e maggior collaborazione nella gestione della vita famigliare, tornando ad essere noi stessi più liberi del nostro tempo e anche del tempo di coppia (per esempio possiamo uscire da soli a cena, fare una vacanza, gestire i nostri impegni in modo più disteso, non dovendo più occuparci di quelli del figlio, in grado ora di fare da sé).

Nel contempo però, proprio l'autonomia e la lontananza del figlio ci lasciano un senso di preoccupazione costante che deriva dal fatto di non avere il controllo su quello che lui sta vivendo. Da qui il bisogno di rassicurazione, il desiderio di sentire se tutto va bene, la necessità di accertarsi che non ci siano problemi. 

Oggi tutto ciò è facilitato (e anche esasperato) dall'uso del cellulare, che ci permette di essere sempre in contatto.

L'esempio classico è quando un figlio fa un viaggio, naturale fonte di preoccupazione materna: "Telefona quando arrivi!" è la classica raccomandazione. Un tempo bisognava stare ad aspettare che tutto il viaggio fosse compiuto, l'albergo raggiunto, che ci fosse la disponibilità di usare il telefono per sapere dell'arrivo del figlio sano e salvo. 

Ora si può comunicare in chat o a voce o addirittura in video durante il viaggio, con la possibilità di fornire aggiornamenti costanti. Questo è sicuramente un bel modo per sentirsi vicini e condividere emozioni, ma ci rende meno capaci di sopportare l'ansia da controllo: se non c'è campo o non è possibile accedere a internet, o il telefono è scarico è una tragedia! 

Perché, davvero, una mamma sente male al cuore quando il figlio è lontano, quando non ha la certezza che sia al sicuro, che sia felice.

Non oso immaginare il cuore delle mamme che nei secoli scorsi vedevano i loro figli partire e restavano giorni, mesi, anni in attesa di notizie, senza sapere se fossero vivi o morti... non oso immaginare il cuore delle mamme che anche oggi non sanno che fine hanno fatto i loro figli e vivono una perenne, logorante attesa.

 

Un'altra fonte di preoccupazione è il modo con cui i figli trascorrono il tempo, o con chi, quando non sono con noi. La concessione della libertà di movimento autonomo è sempre un momento che mette alla prova i genitori: troppo permissivi? Troppo rigidi? Troppo invadenti? Troppo ingenui? Non ci sono certezze. È difficile fidarsi di tutto il lavoro educativo svolto finora, è difficile credere che questo sia stato sufficiente alla formazione della coscienza e della capacità critica del proprio figlio, tanto da renderlo capace di compiere scelte buone e attuare comportamenti giusti, adeguati, corretti

Bisogna fidarsi, e bisogna essere presenti per ascoltare, osservare, consigliare, consolare, incoraggiare.

Non facile. Il cuore delle madri a volte è trafitto dalle scelte sbagliate dei figli, dai comportamenti non rispettosi, dalle bugie, dai sotterfugi. E penso a quanta sofferenza ci sia nell'amare un figlio che ha commesso atti di violenza, crimini o altre cose orribili. Ma credo che neanche questo riesca a separare una madre da chi è stato per lei anni prima il suo bimbo bisognoso di latte e di amore.

 

Più crescono, più i figli sono in grado di riconoscere i limiti e gli errori dei loro genitori, magari criticano, accusano, magari trovano il coraggio di svelare sofferenze e malcontento tenuti a lungo nascosti. 

Anche questo è un momento difficile, in cui un genitore si sente messo in discussione, a volte frainteso, se non deluso o ferito.

C'è chi dice che un figlio diventa adulto quando, riconosciuti gli errori dei suoi genitori, riesce a perdonarli. Questo lo pone ad un livello non più subordinato ma paritetico, alla stessa altezza, in una relazione tra pari, appunto tra adulti.

Per il genitore è il momento di guardare con commozione e gratitudine l'uomo o la donna che questo figlio è diventato, è il momento di rileggere e magari fare pace con il lungo percorso fatto accompagnando la crescita del figlio, riconoscere i propri limiti e mancanze, perdonare se stesso e proseguire questa relazione di accompagnamento con uno stile diverso, magari più discreto, in un certo senso più "alla pari".

Credo che il compito di un genitore, di una mamma quando i figli sono adulti sia quello di guardarli camminare sulla loro strada, rispettare le loro scelte, essere presente quando hanno bisogno. Questo è quello che cerco di fare con i miei, anche se non sempre è facile e la tentazione di sostituirsi, criticare, correggere è sempre in agguato. 

 

Una cosa che nella mia esperienza di genitore di figli adulti ancora mi stupisce, e che francamente non mi aspettavo, è proprio il fatto che non si riesca a smettere di preoccuparsi per loro, nemmeno una volta verificata la loro autonomia, il loro benessere e la bontà delle loro scelte di vita. 

Basta uno sguardo triste, un problema di salute, una minima difficoltà sul lavoro ad innescare la preoccupazione e il pensiero di come aiutarli... col rischio di essere invadenti o inopportuni. Penso a quante volte questo possa rendere più difficile ai figli gestire e superare i loro problemi, appesantiti dal pensiero di non generare troppa preoccupazione su genitori. La nostra attenzione nei loro confronti dovrebbe essere piuttosto un alleggerimento, invece che il contrario! Ripenso a Maria: come sarà riuscita ad alleggerire il peso della croce portata da suo figlio? 

 

Ed ecco che introduco un ultimo pensiero.

Penso che non ci sia niente di peggio per una madre che dover essere testimone della sofferenza di un figlio. Eppure nessuna madre vorrebbe essere lontana dal proprio figlio che soffre.

Sembra proprio una contraddizione, ma credo davvero che sia così: una mamma farebbe qualsiasi cosa per alleviare il dolore dei suoi figli, per fare a cambio e offrirsi al loro posto. Sappiamo che la vita non ce lo permette, che non possiamo soffrire il dolore degli altri, né sostituirci a loro nelle prove della vita. Quello che si può fare, allora, è mantenere la vicinanza, essere una presenza di consolazione, di incoraggiamento, di sollievo, di aiuto. Questo fanno le madri che si spendono per i loro figli che soffrono: fanno loro compagnia e li sostengono nel loro cammino, finché ne avranno bisogno, finché ci sarà vita.

Proprio come Maria, che è rimasta ai piedi della croce senza abbandonare suo figlio, fino ad affidarlo alle braccia del Padre.

Mi viene in mente come facilmente, quando stiamo male, siamo in difficoltà, o proprio nel momento della morte, viene invocata la mamma, quasi come un bisogno di presenza rassicurante e conosciuta che ci dia forza in questi passaggi difficili. Ricordo con dolcezza questa invocazione sulle labbra di mio suocero, nelle ore prima della sua morte. Mi viene da pensare che affidarsi alla mamma in questi momenti si esprime per i cristiani con la recita del rosario, preghiera mariana per eccellenza, come consuetudine che accompagna la dipartita di una persona cara; come il gesto di affidare alla mamma del cielo colui che sta lasciando la sua famiglia terrena.

 

Il desiderio, direi addirittura l’istinto di una madre è il bene del figlio, non potergli essere vicino quando sta male è una grande sofferenza. Per questo forse l’abbandono o il rifiuto di un figlio (anche se razionalmente agito pensando di fare il meglio o il meno peggio) genera una mancanza, una ferita che probabilmente non si colmerà mai, proprio perché preclude alla mamma la possibilità di essergli vicino nel bisogno, di sapere come sta.

Si comprende forse così come mai ci sono donne che, pur nella difficoltà, nel pericolo, nella paura, scelgono di favorire la vita del figlio rispetto alla propria, accettano sofferenze e rischi pur di non danneggiarlo, sono pronte a dare la vita per lui, perfino quando egli è ancora nel loro grembo.

Vengono chiamate “madri coraggio”, come se la loro scelta fosse insolita e spropositata, ma degna di rispetto e ammirazione; mi piace pensare che è una scelta invece che nasce da una maggior consapevolezza di questo legame sacro e imprescindibile che esiste tra madre e figlio; dalla consapevolezza che il cuore di una mamma non può riposare in pace se si sente causa o se si ritiene responsabile del dolore o della perdita di suo figlio; dalla consapevolezza che la vita di ognuno è preziosa in egual misura, ma per una madre non c’è compito più importante che custodire quella dei suoi figli.

 

Ringrazio allora tutte quelle mamme che tenacemente, anche senza accorgersi, ci danno l’esempio, ci incoraggiano, ci infondono fiducia in noi stesse; quelle mamme ci ricordano che possiamo farcela anche noi, nonostante i limiti e le difficoltà; ci ricordano che non siamo sole, perché un’altra cosa speciale dell’essere madri è che ci si sente subito in sintonia le une con le altre, ci si confronta e ci si consola nei dubbi e nelle fatiche, ci si comprende nei bisogni e nelle perplessità, ci si aiuta e si impara reciprocamente.

 

Questo è quello che non si dice ad una neo mamma: che il cordone ombelicale che la lega al suo bambino, nonostante sia stato reciso "fisicamente" alla nascita, rimarrà nella sua mente e nel suo cuore come il più resistente dei legami... non per opprimerla o limitarla, ma come garanzia che niente andrà perduto, che nulla di quanto succederà potrà dissolvere l’amore tra lei e suo figlio. 

cosa c'è di così unico e speciale nel legame tra una madre e suo figlio (o figlia)?

12.10.2024

chiarasolcia.it, chiara solcia, da quando ci sei tu, educhiamo la famiglia
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