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ALLA RICERCA DELL'IDENTITA' SESSUALE

C’è un argomento difficile, che mi mette alla prova e sfida le mie certezze, ma che mio malgrado mi interroga in modo sempre più pressante, soprattutto negli ambiti in cui mi trovo ad operare a livello educativo.

Sto parlando della questione dell’identità e dell’orientamento sessuale, quello che spesso viene definito, un po’ approssimativamente, come la questione del gender.

Dico subito che rispetto a questo argomento sono ancora alla ricerca di risposte, anzi direi che ho in mente alcuni grandi punti interrogativi e pochi punti fermi di riferimento.

Provo a condividerli, con l’intenzione di cercare di mettere ordine e fare chiarezza.

Mi sono chiesta come mai questi argomenti mi risultino così spinosi: forse perché, a differenza di altri temi che sfidano i valori cristiani come divorzio, convivenza, aborto, fecondazione artificiale ecc., non sono legati solo a scelte, comportamenti, stili di vita, ma, fondamentalmente, sono temi legati all’essere, non sono scelte ma condizioni in cui ci si ritrova: ci si ritrova a provare una tendenza omosessuale, ci si ritrova a sperimentare la disforia rispetto al proprio genere. La scelta diventerà poi COME vivere questa condizione in cui mi trovo. 

Quindi il tema è l’identità sessuale.

Intanto precisiamo che con il termine IDENTITÀ si intende il senso profondo che una persona ha di se stesso, cioè la percezione di esistere come individuo originale, di essere una unità personale; è la capacità di dire IO riferendosi a se stesso. 

Per quanto invece riguarda il concetto di IDENTITÀ SESSUALE, cercando varie fonti, la definizione che ho trovato più esauriente è quella della dottoressa Chiara Manieri, androloga e endocrinologa, che la definisce come l’insieme di quattro elementi: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.[1]

Li guardiamo uno alla volta:

  • sesso biologico- è la dimensione corporea, definito dalla presenza dei cromosomi sessuali, apparato genitale, ormoni, caratteri sessuali secondari…insomma il fatto di avere un corpo femminile o maschile.

  • identità di genere- è invece la dimensione psicologica, cioè la percezione soggettiva di essere un maschio o una femmina…o altro ancora: ciò che MI SENTO

  • ruolo di genere (o espressione di genere)- è la dimensione del comportamento: come esprimo il mio essere maschio o femmina, più o meno conformemente al contesto culturale

  • orientamento sessuale- è la dimensione affettiva, dell’attrazione sessuale verso le altre persone.

 

Questi quattro fattori si strutturano e si consolidano man mano che l’individuo cresce. Se vanno tutti nella stessa direzione, l’identità viene vissuta in modo armonico. Se uno solo di questi elementi si discosta, la faccenda si complica, un po’ come quando si costruisce una pila con dei mattoncini che non sono bene allineati tra loro e la pila fatica a mantenere l’equilibrio, o addirittura rischia di crollare.

 

L’identità sessuale quindi è una realtà bio-psico-sociale: partecipano alla sua costituzione il corpo, le emozioni, la percezione, le relazioni primarie, l’ambiente, la cultura e infine le scelte personali.

Di tutti questi elementi, per quanto riesco a vedere, uno solo è dato dall’inizio, come se fosse il primo mattoncino della pila: è il corpo, cioè la dimensione biologica.

È dall’osservazione del corpo del neonato che si decreta il suo sesso, che verrà registrato sui suoi documenti e che determinerà il suo nome. Partiamo quindi da un dato che a cascata influenzerà tutto ciò che viene dopo.

Per mia deformazione “professionale”, continuo a ripetere (e a credere) che il corpo dice molto di noi stessi, dice chi siamo e ci indica il modo di entrare in relazione gli uni con gli altri. Il corpo sessuato dice di una complementarietà del maschile con il femminile, che si esplicita in modo particolare nel gesto dell’unione sessuale: l’apparato maschile e femminile sono assolutamente compatibili per questo incontro, sono il luogo “dedicato” al suo realizzarsi. Difficile prescindere da questo dato. Dato perché non scelto, dato perché mi trovo, senza essere stato consultato, ad ESSERE questo corpo.

Direi che allora, nel processo di costruzione dell’identità sessuale, le altre dimensioni possono essere più flessibili, ma forse anche più complesse, proprio perché meno oggettive, meno concrete, più plasmabili o soggette a molteplici fattori di influenza.

Le problematiche relative all’identità sessuale non armonica dipendono quindi dal più o meno marcato discostamento di queste dimensioni rispetto a quella data, la dimensione biologica appunto. Mentre nei secoli passati il pensiero comune era portato a patologizzare questa disarmonia, a considerarla cioè una distorsione, una malattia o una perversione, ultimamente la posizione sostenuta dalla gran parte del mondo scientifico, psicologico, mediatico è che l’identità e l’espressione di genere, così come l’orientamento sessuale, possano variare in una gamma che va dal maschile al femminile attraversando tutte le sfumature che collegano questi due poli.

Seguendo questa logica la tendenza omosessuale è stata derubricata dal manuale delle malattie mentali ed è diventata una variante dell’orientamento; idea maturata sia dalla inconcludenza di tutte le ricerche volte a trovare una causa certa per il suo insorgere, sia sotto la spinta ideologica di chi denunciava la discriminazione subita negli ambiti sociali dalle persone omosessuali.

Sottolineo che ritengo ingiusta OGNI forma di discriminazione basata sull’identità delle persone: il sesso, il colore della pelle, l’orientamento sessuale, il luogo di provenienza, la conformazione fisica; tutte queste forme di discriminazione non sono scusabili ovunque avvengano: sul lavoro, a scuola, nei luoghi di ritrovo, per strada, in chiesa…non mi sembra giusto rifiutare l’altro per ciò che è: ognuno di noi è unico, prezioso, amato dal Signore. Questo secondo me è uno dei punti fermi che mi orienta in questa questione, come in tante altre: ogni essere umano, proprio perché essere umano, è degno di rispetto, degno di essere guardato con benevolenza, anche se è molto diverso da me e questa sua “diversità” mi mette a disagio o non la comprendo, o non mi piace o mi fa paura.

Quindi ritengo ingiusta la discriminazione fatta nei confronti di una persona per il suo orientamento sessuale, e l’impegno educativo va nella direzione del promuovere il rispetto degli altri, nello sguardo, nel linguaggio, nel comportamento. Questo vale per tutti, quindi anche per le persone con tendenza omosessuale.

Fin qui penso che possiamo essere tutti d’accordo, almeno concettualmente. Tra l’altro mi pare che in Italia non ci siano mai state leggi punitive nei confronti delle persone omosessuali, come per esempio in passato in Inghilterra o negli Stati Uniti…o come tuttora in alcuni stati mediorientali; poi però, sappiamo bene che la realtà è un’altra cosa rispetto alla legislazione, tanto è vero che episodi di intolleranza vengono spesso riportati dalla cronaca, e su questo ci sarà ancora da lavorare.

Il punto che invece non mi torna è il passaggio che fa dire al mondo scientifico che l’omosessualità rappresenta una delle varianti possibili dell’orientamento sessuale, comparabile e quindi indifferente rispetto all’orientamento eterosessuale. Cioè il fatto di dire che non c’è differenza tra il sentirsi attratti esclusivamente da persone del proprio o dell’altro sesso, oppure da entrambi i sessi, o anche da nessuna persona, indipendentemente dal sesso a cui appartenga.

Dire che l’orientamento sessuale è indifferente, che vanno bene tutti o meglio che tutti hanno lo stesso significato e le stesse potenzialità non mi torna perché mi sembra che il corpo dica il contrario: il corpo sessuato, con la sua complementarietà tra maschile e femminile, consegna alla RELAZIONE eterosessuale (parliamo quindi non del piano personale ma dell’incontro con l’altro) una potenziale completezza che le altre varianti non possono raggiungere.

Nello specifico per quanto riguarda la relazione omosessuale, ad essa mancano la possibilità di realizzare quello che io chiamo un rapporto sessuale ecologico, cioè come “pensato” dalla natura, e la componente della generatività biologica, cioè non è possibile avere figli insieme.

Questi due fatti possono bastare secondo me per dire che i diversi orientamenti non sono indifferenti, ma presentano delle differenze sostanziali; questo non per dire cosa è meglio o peggio, neanche per riconoscere un giusto e uno sbagliato…è una semplice osservazione, un dato di fatto; una puntualizzazione importante, però, perché se non la prendiamo in considerazione, se diciamo che i diversi orientamenti sono sovrapponibili, allora il passaggio successivo è: siccome non c’è differenza tra una coppia eterosessuale e una coppia omosessuale, allora entrambe hanno gli stessi diritti, che è un po’ l’argomento oggetto di riflessione e di scontro di questi ultimi anni.

Qui secondo me occorre fare una precisazione, perché mi pare che spesso, anche nel parlare comune, confondiamo i diritti con i desideri. E non tutto ciò che desideriamo può diventare automaticamente un diritto.

Per quanto riguarda i desideri, gli esseri umani si assomigliano: mi piace pensare che ogni persona nutra il desiderio di essere accolta, apprezzata, amata, di sentire un’appartenenza affettiva, di avere qualcuno con cui condividere la vita, insomma di essere felice. Per quanto riguarda le scelte personali volte a realizzare i propri desideri di felicità, come con chi condividere l’appartamento, a chi lasciare l’eredità, chi eleggere come referente per le emergenze sanitarie ecc…io penso che in una società civile sia ragionevole e legittimo accettare e garantire scelte di questo tipo anche se si differenziano da quelle tradizionalmente determinate dai legami di sangue.

Se due persone dello stesso sesso legate da una relazione affettiva chiedono di essere riconosciute come una coppia non vedo chi abbia l’autorità di impedirlo o di negarlo.

Azzardo invece un ulteriore spunto che mi pare sfugga nei dibattiti sull’argomento: il fatto che faccia parte delle libertà civili scegliere un certo stile di vita, non significa che automaticamente tutti siano d’accordo con questo stile di vita. Che le scelte degli altri vadano rispettate e non siano motivo di discriminazione non significa che siano considerate giuste da tutti. E non significa nemmeno che non si possa esprimere il proprio pensiero di non condivisione di queste scelte. Mi sembra importante questa sottolineatura quando si affronta il tema dell’omofobia, che viene percepita spesso come la mancata conformazione al pensiero positivo rispetto all’omosessualità, mentre invece dovrebbe essere l’atteggiamento non rispettoso delle scelte di chi si trova in questa condizione. Dire “non sono d’accordo con questo modo di agire” non è la stessa cosa di dire “ce l’ho con te perché agisci così e quindi mi sento legittimato a non rispettarti”. Anche su questo secondo me c’è ancora molto da lavorare.

Alcuni desideri quindi possono coincidere con dei diritti, altri però no.

Penso soprattutto al desiderio di avere dei figli, desiderio che sorge spontaneo ad un certo punto del cammino di coppia, o personale.

Diventare genitori però non è un diritto, è qualcosa che può realizzarsi quando ci siano determinati presupposti. E questi sono che ci siano un padre e una madre. Biologicamente essi sono necessari perché il bambino venga concepito, possa nascere e ricevere l’accudimento primario, ma contemporaneamente il padre e la madre, nella loro differenza, risultano importanti per lo sviluppo psicofisico e relazionale del bambino negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza; i genitori influenzano significativamente lo sviluppo di una persona, hanno influenzato significativamente il nostro sviluppo, lo sappiamo bene!

E diventare genitori è molto più che il soddisfacimento di un desiderio o di un’aspirazione, ma è un compito, un impegno per tutto il futuro, è una responsabilità che pone il bene del figlio come criterio dell’agire dei genitori.

A partire da questa considerazione non trovo realizzabile il desiderio di una coppia omosessuale di avere dei bambini. Non perché penso che non siano in grado di essere buoni genitori, ma perché la realizzazione del loro desiderio richiede la scelta deliberata di privare un bambino di una delle due figure genitoriali (o la madre o il padre) naturalmente importanti per il suo benessere. Ritengo che nessuno abbia il diritto di imporre una condizione così radicale a una terza persona, il bambino appunto, anche se fatta nell’ottica di offrirgli tutto il bene possibile. In altre parole penso che sia, al contrario, un sacrosanto diritto del bambino vivere con la mamma e il papà che lo hanno messo al mondo. È vero che poi di fatto questo non succede sempre, ma capita solitamente per via di qualche intoppo di percorso e non per scelta deliberata. Il fatto che si possa “procurarsi” un bambino da qualcun altro, magari sfruttando il suo stato di bisogno, o commercializzare la vita umana, mi sembra fondamentalmente ignobile ed egoista (e questo lo penso, per la verità, di tutte le pratiche di questo tipo, non solo se coinvolgono coppie omosessuali). Mi rendo conto che questo pensiero si scontra con tante altre posizioni, ma questo è.

Un’attenzione diversa andrebbe dedicata invece ai casi in cui il bambino si trova a vivere all’interno della relazione omosessuale del proprio genitore, ma qui le valutazioni sono delicate e davvero da guardare caso per caso, anche gli studi a riguardo sono difficili e condizionati da troppi bias per dare delle linee direttive utili.

Mi sono un po’ dilungata su questo tema perché è una delle questioni che vengono richieste spesso dai ragazzi, per esempio a scuola, e rischia di diventare lo schierarsi tra due diverse fazioni contrapposte.

Un ultimo appunto che ritengo importante è relativo all’atteggiamento riguardo ai dubbi sul proprio orientamento omosessuale che i ragazzi possono rivolgere agli adulti di riferimento; le indicazioni di gran parte del mondo psicologico portano ad aiutare i ragazzi ad accettare la loro condizione, lottando contro le loro resistenze, che vengono chiamate omofobia interna, proprio perché l’omosessualità è classificata come variante dell’orientamento. Non si tiene conto però che in alcuni casi essa è il sintomo di una problematica relazionale e psicologica che, se affrontata, potrebbe anche portare al risolversi della tendenza omosessuale. Cioè mi pare che, per distanziarsi dai metodi repressivi usati negli scorsi secoli, si rischi di non ascoltare la richiesta di aiuto di chi in questa condizione non si trova bene, e non per la mancata accettazione dell’ambiente in cui vive.

Un approccio educativo saggio e onesto su questo argomento così complesso dovrebbe essere attento a sottolineale l’importanza di non discriminare né colpevolizzare l’orientamento omosessuale, ma neanche darlo per scontato senza invitare ad esplorare la sua possibile origine; riconoscere che è una condizione che presenta dei limiti, così come ogni altra condizione.

Uno di questi limiti, come detto, sarà quello di non poter avere figli all’interno della coppia; un’altra differenza è quella che all’interno di una coppia omosessuale la gestualità sessuale si dovrà esprimere con gesti diversi da quelli che si vivono tra uomo e donna, e che per l’aspetto relazionale all’interno della coppia mancherà la complementarietà e l’interazione psicologica, il confronto del pensiero e del punto di vista del maschile e femminile.

insomma le differenze ci sono, e mi sembra giusto non nasconderle né minimizzarle, dal momento che secondo me possono caratterizzare fortemente l’esistenza a livello personale, sociale e eventualmente di coppia. 

 

Altro argomento delicato e difficile da approcciare, soprattutto quando ci si confronta con i ragazzi a scuola, o in quegli ambienti molto eterogenei in cui è forte l’influenza del pensiero mainstream (quello veicolato dai media, da internet, dalle fiction, che presentano una realtà edulcorata in cui tutto è possibile, indolore, indifferente) è un tema in qualche modo collegato, spesso confuso con l’omosessualità.

Parlo del transessualismo, o come è di moda chiamarlo adesso, aumentando la confusione all’inverosimile, il tema del gender.

Provo a riordinare le mie idee anche su questo, con la speranza di contribuire a chiarire qualche dettaglio a chi è anche più confuso di me.

Partiamo dall’inizio: GENDER è un termine del vocabolario inglese che significa genere, sesso (inteso come maschile e femminile). Questo termine però ultimamente ha subito un sostanziale allargamento del suo significato, che adesso viene inteso come quel costrutto soprattutto culturale e sociale che fa in modo che una persona si riconosca come maschio o come femmina in quanto corrispondente a determinati canoni sociali. Rispetto al passato la differenza è l’idea che il genere non sia correlato necessariamente al sesso biologico, anche se nella maggior parte dei casi questa corrispondenza si verifica.

La prima sottolineatura necessaria è che quando parliamo di transgenderismo o transessualismo ci riferiamo a ciò che riguarda l’identità e l’espressione di genere. E dicendo ciò è importante ricordare, soprattutto ai ragazzi a scuola che fanno tanta confusione, o anche ai nostri figli quando ci chiedono di queste cose, che le persone omosessuali non sono per forza transgender e che le persone che non si riconoscono o non si esprimono in modo coerente al loro sesso biologico non sono per forza omosessuali. Questo è un dettaglio che serve per fare chiarezza, anche se poi è vero che si incontrano persone che si riconoscono in entrambe le condizioni.

TRANSGENDER è il termine che viene usato dagli studiosi come un contenitore molto ampio di variabili di comportamento di quelle persone che esprimono la loro identità di genere in modo, diciamo, non immediatamente riconducibile al loro sesso biologico. Come succede per la tendenza omosessuale, anche questo fenomeno viene considerato una varianza, tanto che si allarga il concetto di identità non solo a quella ,come dire, “tradizionale” binaria (maschio e femmina) ma ad una gamma, detta NON BINARIA che abbraccia tutte le sfumature possibili tra la distanza di un polo (maschile) e l’altro (femminile) e anche qui non si parla più di un disturbo, né di malattia mentale, così come è successo alla tendenza omosessuale.

 

Mi fermo a fare una piccola riflessione a margine: è vero che il ruolo di genere ha avuto nella storia un forte fondamento culturale: le bambine e i bambini in passato sono dichiaratamente stati educati in modi differenti, funzionali a prepararli ai compiti che ci si aspettava da loro una volta cresciuti. È anche vero che questa cosa ha fortemente limitato e fatto soffrire tutte quelle persone che per indole, interesse, desiderio, non andavano volentieri incontro a ciò che la società si aspettava da loro. È una benedizione che nei nostri tempi almeno in teoria ognuno possa scegliere il lavoro che gli piace o per cui si senta portato, che sposarsi non sia una necessità di sopravvivenza, che si possa scegliere che tipo di vestiti indossare, come tagliare i capelli, che sport praticare, che ognuno possa esprimere le proprie emozioni come si sente e usare il linguaggio che gli pare più adatto ecc. Non mi stanco mai di ripetere che ogni persona è unica, originale, bellissima così com’è è ha diritto di esprimere se stessa come si sente e come sceglie, nel rispetto dello stesso diritto degli altri.

Una benedizione ma in una qualche misura anche una illusione, perché striscianti, nascosti o a volte neanche tanto camuffati, sono ancora tanti i condizionamenti a cui siamo sottoposti, anche nel nostro modo di esprimere la nostra identità sessuale (basta pensare ai condizionamenti della moda, del dress code, della cosmesi, dell’estetica.) Tengo a sottolineare che esprimere il proprio genere in modo alternativo ai canoni sociali non è necessariamente segno di non accettazione di quel genere…esempio personale? Non mi trucco, ho i capelli cortissimi e indosso quasi esclusivamente calzoni ma mi percepisco come donna, ho un corpo femminile, sono sposata con un uomo e ho figli. Inoltre non possiamo dimenticare che tante conquiste, tanti passi avanti contro la discriminazione di genere, o anche di altro tipo, sono stati fatti grazie a persone che hanno avuto il coraggio di andare contro gli stereotipi e le imposizioni delle società.

A livello educativo e di attenzione all’altro è importante perciò secondo me richiamare alla necessità di non giudicare l’identità degli altri in base all’originalità dei gusti, delle scelte, dell’aspetto: se scelgo di indossare abiti da uomo perché sono più comodi, non vuol dire che non mi sento donna! Se mi sento a mio agio quando il mio aspetto è curato e per questo tingo i capelli e smalto le unghie, non per questo non mi sento uomo. Esempi banali e estremi, ma vale la pena non darlo per scontato per non ritrovarci intrappolati da quegli stereotipi che spesso combattiamo perché ingiusti e limitanti.

 

Ma torniamo a parlare di identità disarmonica. Dicevo, non più indicata come una malattia mentale e neanche chiamata “disturbo” dell’identità di genere, adesso si indica con DISFORIA DI GENERE quella condizione che mi fa vivere con malessere la discrepanza tra il mio corpo sessuato e la percezione della mia identità: mi sento donna ma mi trovo in un corpo maschile. E viene mantenuta nel DSM (manuale delle malattie mentali) perché ciò permette l’accesso al percorso psicologico/endocrinologico/chirurgico necessario per acquisire l’aspetto del genere in cui ci si riconosce o, come dice appunto il DSM, alla “Procedura medica di affermazione del genere”

E finalmente abbiamo inquadrato la situazione: la persona transessuale è colui che, percependo la disforia di genere, desidera essere riconosciuto come appartenente ad un sesso diverso da quello “che gli è stato assegnato” alla nascita (e qui uso le virgolette perché le parole sono importanti…)

 

Sentirsi in un corpo sbagliato è sempre problematico, vale anche per le imperfezioni estetiche, l’aspetto sgradito, il peso inadeguato. Sentirsi in un corpo che non corrisponde al sesso percepito deve essere molto doloroso e spiazzante. Questa è la prima riflessione che mi viene in mente di fronte a questa problematica, e la prima sottolineatura che faccio quando ricevo domande dai bambini e dai ragazzi a riguardo.

Perché invece il loro pensiero è: vabbè, che problema c’è? Se un maschio vuole essere una femmina può diventarlo e viceversa. E se poi non gli piace o cambia idea può fare il percorso inverso. Queste sono osservazioni che si sentono spesso dai bambini, ma anche da ragazzi più grandi.

Quindi primo mito da sfatare: questa è una condizione che genera sofferenza. Nel caso poi si decidesse di intraprendere il percorso di transizione per “cambiare sesso” (anche qui le virgolette sono d’obbligo) questa è una strada lunga, complessa, fatta di tante tappe, dolorosa, irreversibile.

Ma ancora più importante è sapere dove porta questa strada: non a DIVENTARE maschi o femmine, ma ad ottenere la “rettificazione dell’attribuzione di sesso” (termine legale) cioè il diritto di essere chiamato con gli appellativi tipici del sesso che mi è stato riattribuito (se ho fatto la transazione da maschio a femmina: un nome femminile, uso di pronomi e aggettivi al femminile quando ci si riferisca a me ecc.)

Come questo sia diverso dal dire che ero uomo e divento donna si chiarisce rispondendo a un’altra domanda che i bambini fanno spesso: se un uomo diventa una donna poi può partorire?

La risposta ovviamente è no… perché la transizione (lunga, complessa, dolorosa) trasformerà fondamentalmente il mio aspetto, che sarà più simile a quello di una donna, ma non mi darà gli organi dell’apparato femminile, quindi non avrò ovuli, non avrò mestruazioni, gravidanze, possibilità di allattare al seno. Così come se transito da femmina a maschio non avrò prostata, né testicoli, né spermatozoi.

Avrò invece dei livelli ormonali simili a quelli fisiologici maschili e femminili, non prodotti dalle ghiandole sessuali ma assunti come farmaci. Questi ormoni servono per femminilizzare o mascolinizzare il corpo e avranno effetto in qualche modo anche sui circuiti cerebrali.

È questo il momento di evidenziare quelli che per me sono i due punti cruciali che non si possono tacere:

-il sesso “assegnato alla nascita” è quello inscritto nel corpo: cromosomi che abitano ogni cellula e che producono effetti che plasmano il cervello in tutte le sue funzioni, e che, nella pubertà, danno vita a una serie di trasformazioni a cascata che caratterizzeranno tutto l’organismo.

Il vissuto (anche fisico) di un maschio o di una femmina non si possono trapiantare, ne simulare: una persona che da maschio transita a femmina non avrà mai l’esperienza del ciclo mestruale, della mestruazione, dell’ovulazione, della sindrome premestruale; una femmina transitata maschio non avrà mai l’esperienza dell’erezione mattutina o della eiaculazione degli spermatozoi…cioè quelle esperienze condivise tra tutti i maschi o tutte le femmine; anzi per la verità avranno memoria del loro vissuto, di ex maschi o di ex femmine, che magari poco facilita il riconoscersi nelle persone del sesso di cui ora si sentono di far parte. È una situazione assurdamente complessa, perché nello stesso tempo non hanno perso del tutto le caratteristiche fisiche tipiche del sesso con cui sono nati.

Per non parlare di quelle persone che non arrivano per esempio alla trasformazione chirurgica degli apparati ma, sentendosi appartenenti dell’altro sesso, vogliono frequentarne per esempio i bagni o gli spogliatori in palestra, creando non poco disagio o ambiguità.

Nello specifico la transizione da maschio a femmina è quella che provoca maggior problematiche in questo senso, tanto che sotto certi aspetti mettere le donne e le transessuali sullo stesso livello è vissuto come un pericolo per le donne, come una nuova modalità di sopraffazione maschile sul “sesso debole”: è stato fatto notare come in un confronto fisico una persona transessuale sia in media  favorita rispetto ad una donna per via della sua struttura fisica; ad esempio ci sono state delle polemiche in ambito sportivo perché le atlete transessuali che gareggiano con le donne più facilmente vincono le gare di corsa o salto essendo più alte, con gambe più lunghe e comunque hanno una struttura muscolare più massiccia).

La realtà è che non si può diventare uomini se si nasce donna, tanto è vero che il fatto di aver attuato la transizione è qualcosa che non si può nascondere, che è corretto dichiarare nelle relazioni più intime (a detta del responsabile dell’ambulatorio di disforia di genere di un grande ospedale della mia città)

 

-il tanto parlare della possibilità di cambiare sesso ha fatto aumentare la percentuale di persone che vogliono fare la transizione? Sembra di sì…il mio dubbio è che tanti di noi possono avere dei grandi motivi di sofferenza e di insoddisfazione di sé, la percezione di non stare bene con se stessi o di non essere amati e accettati. Come essere sicuri che questo malessere esistenziale sia davvero correlato alla disforia di genere? Come essere sicuri che la disforia non sia invece solo il sintomo di qualcosa di diverso, come il cratere apertosi per dare sfogo a problemi di altra natura? Quanto la transizione viene percepita come il modo per “risolvere ogni mia infelicità”?

Su questo occorrerà un grande lavoro di introspezione e accompagnamento per non rischiare di prendere grandi cantonate, e di moltiplicare la sofferenza e la complessità della vita di persone magari già fragili e ferite. Un segnale in questo senso viene già da tanti casi riportati dalla cronaca: ragazzi ormai cresciuti che sono stati accompagnati nella transizione durante l’adolescenza e che, una volta diventati adulti, hanno recriminato la superficialità con cui i loro genitori hanno assecondato le loro richieste, a volte arrivando a denunce e procedimenti legali. Casi limite, certo, come spesso è quanto riportato da giornali e televisione,

ma fanno comunque riflettere rispetto a un trend in medicina per cui si pensa di facilitare i bambini che presentano sintomi di disforia di genere, bloccando con dei farmaci il loro sviluppo, in modo da intervenire e rettificare l’attribuzione prima che diventi più complicato.

Non commento, ma mi viene da riflettere sulla funzione di guida e sostegno e anche richiamo all’esame di realtà che dovrebbero avere genitori ed educatori, a volte più preoccupati di non sembrare rigidi o retrogradi che del vero bene della persona che stanno aiutando a crescere…

 

Mi fermo perché mi accorgo che il mio ragionamento sta vagando verso altre direzioni.

Tema quindi quanto mai complesso e delicato, e forse proprio per questo spesso tirato in ballo dai ragazzi, usato spesso anche in famiglia come motivo di confronto/sfida con i genitori, soprattutto forse negli ambienti cristiani. Non mi lascerei troppo spaventare da questo: da sempre gli adolescenti sfidano l’adulto sbattendogli in faccia quelle che sembrano le sue contraddizioni, per differenziarsi cercando strade nuove e per testare la profondità delle convinzioni del loro interlocutore. In questo momento storico i temi “di moda” sono l’omosessualità e l’identità di genere, così come negli anni settanta erano il divorzio e la famiglia borghese.

 

Diciamo che, come cristiani, siamo un po’ abituati a confrontarci con situazioni, posizioni, richieste della società civile che sono in contrasto con la fede e l’insegnamento della Chiesa. Non è certo questo di cui ci dobbiamo spaventare: viviamo in un contesto variegato e siamo consapevoli di essere NEL mondo ma non DEL mondo: non è qui, su questa terra, che dobbiamo aspettarci la perfezione…

Per quanto riguarda la sessualità, sono molti i comportamenti che si discostano dalla morale cristiana: ciò non la rende meno vera e meno attuale.

E questo non è neanche motivo di scoraggiamento, anzi semmai diventa uno stimolo per cercare modalità comunicative che possano raggiungere tutti, anche quelli meno disposte ad ascoltarci.

Nel mio lavoro, il mio tentativo è portare la verità che io ho ascoltato da Gesù e a cui aderisco, ma l’obbiettivo non è pretendere che chi ascolta sia d’accordo con me o sia pronto ad accoglierla…e neanche dimostrare che gli altri hanno torto,

Con il tempo e l’esperienza ho imparato a misurare le parole, a esprimere i valori in cui credo in modo da non urtare sensibilità e credenze differenti dalla mia, lasciandoli trasparire senza ambiguità ma evitando di proclamarli come prerogative irrinunciabili, come unica possibilità, unica cosa giusta da realizzare. Questo non per mancanza di fede o per codardia (almeno così mi piace credere) ma avendo bene in mente che educare all’amore, al rispetto, alla verità sull’essere umano (tutte cose che per me derivano da quanto imparato dalla sequela di Gesù) è una responsabilità che abbiamo verso tutti, anche o soprattutto nei confronti di chi non sarebbe disponibile ad ascoltare il nostro messaggio se lo proponiamo come una verità derivante dalla nostra fede, che magari non conosce o ha rifiutato…perché la verità è che non posso proporre il rispetto per gli altri se non sono disposto a rispettare chi ho davanti, per quanto diverso da me.

Questo atteggiamento di fondo mi ha permesso finora di dialogare e di portare la mia visione della sessualità e della relazione a tutti, senza creare muri e divisioni.

Nel giusto clima di reciproco rispetto diventa più facile offrire risposte scientificamente corrette e antropologicamente sensate a molte obbiezioni, dubbi e confusioni, relative ai vari risvolti affettivi e bioetici che i ragazzi, tra l’ingenuo e il provocatorio, continuamente sottopongono, desiderosi di costruirsi i loro punti di riferimento, le fondamenta su cui basare e costruire la loro vita affettiva, relazionale, sessuale.

 

[1] https://www.manieristudiomedico.it/wp-content/uploads/Manieri-Confini-25-genn-2020-Ridotto.pdf

è possibile trovare punti di riferimento condivisi quando si affrontano temi complessi?

14.01-11.02.23

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